Assocalciatori.it. Il pallone racconta: Giacomo Losi. Gli 80 anni del “Core de Roma”, tra i fondatori dell’Aic: “Da 40 anni alleno la nazionale degli attori”.

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Giacomo Losi, alla Roma per 15 stagioni

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Giovedì Giacomo Losi, il core de Roma, ha compiuto 80 anni. È stato tra i fondatori dell’Assocalciatori e allora il racconto con l’ex capitano giallorosso parte proprio da qui.
Giacomo, come ha celebrato il compleanno?
“Con gli amici, qui a Roma, nel quartiere della Balduina. Senza ex compagni, perché con loro ci vediamo raramente”.

Cosa ricorda della fondazione dell’AIC?
“Era il 1968, c’era la necessità di tutelare i colleghi che erano professionisti al sud, in particolare. Capitava che restassero senza stipendio, che i contratti non bastassero ad avere riconosciuti i diritti e allora decidemmo di unirci”.

Chi partecipò alla prima riunione?
“I capitani delle squadre principali della Serie A. Io rappresentavo la Roma, Gianni Rivera era per il Milan, Sandro Mazzola per l’Inter; Ernesto Castano era della Juve, Totonno Juliano per il Napoli. Per il Bologna c’era naturalmente Giacomo Bugarelli, per la Fiorentina Picchio De Sisti, che era stato anche mio compagno alla Roma”.

E poi intervennero dal notaio figure meno conosciute: Gianni Corelli (Mantova), Giorgio Sereni (Padova) e Carlo Mupo (Reggina). Come avvenne l’elezione del presidente Sergio Campana?
“Era laureato in giurisprudenza, aveva appena smesso di giocare. Si era rivelato nel Vicenza, poi passò al Bologna, quindi tornò al Lanerossi. Era di Bassano del Grappa, mi sembrava l’uomo giusto. Inizialmente sembrava che dovesse interessarsi di tutto un altro avvocato, Carlo Masera, ex giocatore di Seregno e Novara, fui soprattutto io a spingere per Campana”.

Vide giusto, considerata la longevità del presidente onorario…
“Già. Soprattutto, però, era indispensabile partire, per tutelare i calciatori delle categorie minori. E tuttora credo sia indispensabile soprattutto per loro”.

Un paio d’anni fa, la sua storia è diventata persino un libro, pubblicato da Minerva Edizioni.
“L’hanno scritto due giornalisti, Francesco Goccia e Valentina Cervelloni. Erano venuti a trovarmi a casa. Raccontano i miei 15 anni in giallorosso”.

Dal 1954 al ’69, con 386 gare disputate è secondo solo a Francesco Totti. Ma com’è arrivato?
“Da Soncino, provincia di Cremona. Uno dei borghi più belli d’Italia, in riva al fiume Oglio, a una trentina di chilometri da Brescia e anche da Bergamo. Al massimo la squadra del mio paese è arrivata in Quarta serie, l’attuale D, e anche la Cremonese non era così competitiva. A maggior ragione Roma era una mèta, per noi giovani”.

Tantopiù che papà Pietro ebbe una brutta avventura, nell’allora Cecoslovacchia.
“Andò là per lavorare, ma era vicino a un campo di concentramento nazista e probabilmente ci finì anche lui, perché vide cose orribili, che non ha mai voluto raccontare”.

A dieci anni fece la “staffetta” per i partigiani, ma al pomeriggio giocavo con la Virtus.
“Era la squadra dell’oratorio di San Paolo, che avevamo messo in piedi a Soncino, con il parroco don Giovanni. La fondai e ordinammo magliette, arrivate da Brescia. Erano misere, come tessuto, eppure per noi eccezionali, con i colori dell’Inter. Piantavamo le porte da soli, sul campo”.

Per contribuire al sostentamento della famiglia, imparò a fare il sarto.
“Con gli zii, Vittorio e Rosetta, della famiglia di mamma Maria”.

All’epoca Soncino aveva 10mila persone, resistono le mura intorno al paese, con i ponti levatoi.
“E io amavo da morire la bici, facevamo come la guerra, dividendoci tra fan di Fausto Coppi e di Gino Bartali. Quel duello faceva sognare, come il Grande Torino”.

Come visse lo schianto di Superga, nel 1949?
“Fu una delle poche volte che piansi per il calcio. Lo sentii alla radio, in osteria. In casa non l’avevamo, era una vecchia Phonola, con le valvole: andavo là a vedere i giri d’Italia e di Francia, le partite di calcio. Avevo simpatia per il Toro, che venne inghiottito dalla nebbia, dietro la collina. Da quando ci giocai, ovviamente, divenni tifoso della Roma”.

Dalla Prima categoria, iniziò come attaccante e passò alla Cremonese, in serie D, per mezzo milione di lire.
“Tanto, per l’epoca. La svolta fu quando Giovanni Ferrari, campione del mondo nel 1934 e nel ’38, a 16 anni mi prese in prestito nei ragazzi dell’Inter, per il torneo giovanile di Sanremo. Era l’equivalente del Viareggio di oggi. Segnai un rigore decisivo, agli svizzeri del Servette e vincemmo la coppa. Da Milano tuttavia non si convinsero, al contrario della Roma”.

Che ne fece una bandiera, mezzo secolo fa.
“Il mio orgoglio è stata l’unica ammonizione rimediata, nell’ultima partita di Serie A. Naturalmente non ero mai stato espulso, nonostante fossi un difensore. Restai in campo anche da infortunato, del resto all’epoca neanche c’erano le sostituzioni. Si cominciò giusto con il portiere, poi venne inserito il primo cambio per i giocatori di movimento”.

Fu per lo stoicismo che la chiamarono il Core de Roma?
“In realtà fu determinante anche un’ospitata in tv, su Rai1. Il programma era L’oggetto misterioso, con Walter Chiari e Rita Pavone. Fu il grande attore a dire: “Vi presento il core de Roma” e da allora lo sono stato per tutti”.

E all’epoca altri personaggi televisivi frequentavano il calcio.
“Anche Gino Bramieri, pure scomparso, veniva negli spogliatoi a salutarci, all’Olimpico. Allora era molto più facile, adesso i calciatori sono come segregati”.

In quali posizione giocava?
“Terzino sinistro, poi destro. Successivamente stopper e all’epoca neanche c’era il libero. La Roma fu l’ultima a introdurlo. Giocavamo con due terzini e lo stopper in linea, di fatto tre marcatori, insomma. E poi due mediani e due mezze ali nel quadrilatero di centrocampo e quindi i tre attaccanti”.

Dunque eravate già con il 3-4-3, diventato popolare in questo millennio…
“Esattamente. Vedete che nel calcio non si inventa nulla”.

Peraltro è raro trovare un difensore di appena un metro e 69…
“Mi somigliava un po’ Fabio Cannavaro, molto scattante, sull’anticipo, con una buona elevazione. Andava sull’uomo come me, in marcatura, soprattutto a inizio carriera, oggi tutti aspettano l’avversario”.

Un altro soprannome che ebbe era Palletta…
“Appunto per l’elevazione. Sembrava che rimbalzassi come un palla, nel ritorno a terra. Riuscivo a fermare il gigante gallese John Charles e Josè Altafini, ma pure Sivori”.

Chi soffriva particolarmente?
“L’ala destra del Brasile, Manè Garrincha, con quelle finte grazie alla gamba più corta. Lo affrontai in amichevole con la nazionale, quando Trapattoni fermò il grande Pelè, e con la Roma, in tournée in Venezuela, contro il suo Santos”.

E quella gomitata di Sergio Brighenti, oggi presidente onorario del Modena?
“Mi ruppe un’arcata sopraccigliare, all’epoca giocava nel Padova. Probabilmente non lo fece apposta, fatto sta che restai in campo con un bel cerotto e una fascia, poi in spogliatoio mi diedero 12 punti di sutura”.

Altre partite chiave della sua carriera?
“Una fu nel 1961, contro la Sampdoria. Perdevamo 2-1, mi procurai uno strappo all’inguine eppure rimasi in campo”.

Pareggiò l’argentino Manfredini, oggi 80enne, detto piedone.
“Faceva l’attaccante, aveva semplicemente il 41, di scarpe, ma alla discesa dall’aereo con una coppa in mano sembrava un gigante…”.

E lei segnò il gol del 3-2, nel finale, su calcio d’angolo, di testa.
“Mi portai in area zoppicando, era il mio primo gol con la maglia della Roma. L’altro fu a Foggia, con un tiro da quasi 30 metri, anticipai il centravanti e pareggiammo 2-2. Andò nel sette, onestamente però neanche lo mirai”.

Vinse due coppe Italia, con Alfredo Foni in panchina e poi con l’argentino Carniglia, più la coppa delle Fiere del 1961. Mai però lo scudetto.
“Al massimo arrivammo terzi. Altre volte quarti, poi quinti. Tant’è che il presidente Anacleto Gianni venne ribattezzato Anacleto V…”.

Lasciò a 34 anni, colpa del mago Helenio Herrera.
“Che dopo 8 partite mi lasciò fuori e forse soffriva la mia popolarità. Non ho mai fatto polemica, la società non fece niente per restituirmi spazio e quella situazione davvero mi fece cadere le braccia. Il tecnico restò un altro anno, ma non riuscì a rivivere un ciclo analogo a quello con l’Inter”.

Così lei neanche venne convocato, in quella domenica in cui perse la vita Giuliano Taccola, il 16 marzo 1969, a Cagliari.
“Quando ci penso sto ancora male. L’Ansa telefonò a me, perché prima di dare la notizia bisognava almeno avvisare la moglie Marzia. Mi si staccò come il telefono dalle mani, andai a casa sua, ad avvisarla, abitava alla Balduina. Lo aspettava là, con due figli piccoli, poi tornò a vivere vicino ad Arezzo”.

L’ex difensore giallorosso morì per un’iniezione. Lei ha mai visto usare doping?
“Ricordo che Herrera portava con sé una via di mezzo fra massaggiatore e stregone, un francese, tale Wanono. Prima della partita ci dava delle pillole colorate, era Evoran: le distribuiva come fossero vitamine, non erano proibite, teoricamente servivano a far sì che i giocatori restassero sempre a posto, sul piano fisico, ma io non ne avevo bisogno”.

Losi, perché si ritirò a soli 35 anni, nella Tevere?
“Lì iniziai da giocatore ma più che altro feci subito l’allenatore”.

A Roma dove abitava?
“Alloggiavo in una pensione in via Quintino Sella. Alla sera uscivamo in via Veneto, c’erano fotografi e giovani attrici, in quanto calciatori eravamo corteggiati, ma mi colpì subito una ragazza, che poi divenne mia moglie”.

Luciana Renzi, che non è parente con il premier Matteo…
“Viveva in quella stessa strada, la vedevo andare a fare la spesa e quando andavo al ristorante Berardino. Ci sposammo nel ’59, sono già passati 56 anni. Adesso è in ospedale perché ha un femore spappolato, colpa di una caduta, però sta meglio”.

Una figlia, invece, Daniela, le è stata portata via oltre un decennio fa, a 46 anni, da un male incurabile.
“Una tragedia. Ci ha lasciato un nipote, Andrea, vicino alla quarantina. Lavora in banca, a Frosinone”.

E poi ha un altro figlio, Roberto, 50 anni e tre nipoti: Giacomo, 20 anni, Laura, 18, e Marco, 17.
“Il più giovane gioca nella Lupa Roma”.

Oggi fra i giallorossi chi apprezza di più?
“Florenzi, perché ha la stessa voglia che animava me: una vitalità spaventosa, è un generoso, mi piace come gioca. Ha qualità tecniche molto importanti, non è un difensore puro ma è veramente generoso”.

All’Olimpico va più?
“Raramente. Anche a Trigoria. Sono passate varie generazioni di calciatori, dalla mia Roma. In tanti neanche mi riconoscono, in fondo sono quasi tutti stranieri. Va beh, naturalmente con Totti e De Rossi è diverso, perché li ho visti crescere”.

Fra gli allenatori a chi era più affezionato?
“Intanto a Nereo Rocco, anche se non mi ha mai guidato: “Core”, mi diceva, ogni volta che mi incrociava. Era come un padre di famiglia, eccezionale. Si faceva voler bene da tutti. Ebbi invece Fulvio Bernardini nell’under 19, era una persona molto colta”.

In nazionale non ebbe tanto spazio: 11 presenze, compresa una da capitano, ma giocò il mondiale del Cile.
“Nella partita chiave, contro i padroni di casa, la commissione tecnica mi preferì Mario David, che era un mediano, non un terzino. Fu un errore, pagato fra l’altro con l’espulsione di David, anche se prima c’era stato un pugno non visto dall’arbitro. All’epoca giocava nel Milan, poi venne anche alla Roma”.

Neanche da allenatore ha raggiunto i risultati che ebbe da calciatore giallorosso…
“Chiusi trent’anni fa, alla Juve Stabia, Serie C, dopo avere compiuto in particolare il giro della Campania. Mi affacciai in B con il Bari e il Lecce, vincendo il campionato di C”.

Ma tuttora continua a seguire i ragazzi della scuola calcio Nuova Valle Aurelia.
“L’ho fondata io. Amo lavorare con i giovani, sono ancora il presidente, abbiamo solo sino agli allievi, non la prima squadra. Siamo vicino al centro di Roma e al Vaticano”.

Lei però allena anche una squadra di grandi…
“E sono oltre 40 anni, è la nazionale degli attori. All’inizio c’era il compianto Pierpaolo Pasolini, con Ninetto Davoli, oggi Zingaretti, che pure aveva fatto una squadra per conto suo ma adesso ritorna. Scamarcio è venuto qualche volta da noi, senza dimenticare Sebastiano Somma. Oggi cominciamo gli allenamenti, non so bene in quale campo. Andavamo all’Acquacetosa, in passato spesso a Tor di Quinto, dove c’era la Lazio. Un’avventura che mi rende orgoglioso”.

Vanni Zagnoli

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