Assocalciatori.it, Pier Luigi Pizzaballa. Gli 80 anni della “figurina introvabile”, dell’Atalanta vincitrice della coppa Italia, della fatal Verona per il Milan. “E adesso insegno calcio ai bambini, a Gorle, nella Bergamasca”

(assocalciatori.it)

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“Ce l’ho, ce l’ho, manca”. Ecco, Pier Luigi Pizzaballa mancava sempre, era una figurina rara, un portiere di buon livello che sabato ha compiuto 80 anni ed è stato celebrato da molti e qui sintetizziamo alcuni brani.
Intanto da Furio Zara, la firma de Il Corriere dello Sport e pure della Rai, su www.calciomercato.com. “Il bergamasco Pizzaballa portiere dal 1958 al 1980 con le maglie di Atalanta (con cui vinse una storica Coppa Italia), Roma, Verona, Milan e di nuovo Atalanta – è stato un buon portiere (vestiva quasi sempre di nero come i numeri uno di una volta, ha parato per anni a mani nude) che è diventato leggenda proprio perché «Introvabile», raro, preziosissimo (e parliamo ovviamente della sua figurina). Il mistero è stato svelato qualche anno fa. Pizzaballa raccontò che quando il fotografo della Panini raggiunse il ritiro dell’Atalanta per fare le foto ai giocatori – era l’estate del 1963 – lui era infortunato, a casa con il gomito fratturato. Il fotografo lasciò perdere, non tornò e annunciò alla Panini che la foto di Pizzaballa non c’era. L’album uscì lo stesso e solo qualche mese dopo Pizzaballa ebbe la consolazione della sua figurina e migliaia di ragazzini italiani scoprirono che faccia aveva l’«Introvabile».
Nato a Verdello, figlio di un fornaio e di una casalinga, otto tra fratelli e sorelle, la necessità di lavorare per portare il pane a casa; Pizzaballa – prima di diventare professionista – lavorò come commesso in una drogheria. Sarebbe stato uno dei tanti, non fosse per quella figurina. Lo ringraziamo perché è stato – suo malgrado – il simbolo di quella felicità da cercare, sempre e comunque, anche quando sembra impossibile da trovare”.

Su leggo.it, ma anche su ilmessaggero.it, ilgazzettino.it, Marco Lobasso e Mario Fabbroni ricostruiscono la storia di questo portiere volante.
“La figurina Panini ha battuto il portiere, facendolo diventare famoso ben oltre i suoi meriti, che pure sono stati tantissimi. A cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 ha collezionato quasi 300 presenze in Serie A e una anche in Nazionale, ma li compie anche e soprattutto la figurina introvabile, l’altra metà di Pierluigi, il mito di tutti i collezionisti, il Gronchi rosa delle collezioni Panini.
“Pizzabali”, come lo chiamano nella Bergamasca, si rammarica ancora oggi come siano in pochi a ricordare che ha giocato nel Milan di Rivera, nella Roma per tre stagioni (vincendo una storica Coppa Italia nel 1969) e nel Verona. Era il portiere scaligero nella Fatal Verona (5-3 al Milan) del 1973, quando il Diavolo perse lo scudetto anche per colpa di Pizzaballa. Un cognome un po’ strano. «Che io non ho mai rinnegato. Ci fu chi mi disse che con quel nome non sarei mai diventato un calciatore».
Ha ricevuto gli auguri anche dalla Panini, con il direttore editoriale Fabrizio Melegari. «L’affetto che nutriamo per l’amico Pizzaballa è infinito. Un uomo per bene che, dopo una degnissima carriera da giocatore di Serie A, ha perpetuato la sua popolarità affrontando con leggerezza e col sorriso sulle labbra le simpatiche conseguenze della rarità della sua figurina, vera o presunta che fosse, edizione 1963-64». 
E poi il ricordo di Ezio Luzzi, 86 anni, voce storica di Tutto il calcio. «A me Pizzaballa piaceva. Lo trovavo forte soprattutto nelle uscite. La goliardia era una caratteristica fondamentale del calcio di quegli anni. Senza social e pay tv, per un calciatore i riscontri si avevano solo alla lettura delle formazioni: qualcuno “diceva” che Pizzaballa era come la sua figurina, non esisteva… Invece giocò tanto e bene, soprattutto nella Roma».

Molto bella l’intervista di Elia Pagnoni, sino a due mesi fa capo dei servizi sportivi de Il Giornale e adesso firma. 
“Quando giocava era introvabile, adesso basta andare a Gorle, a due passi da Bergamo, e lo si trova sempre, su un campetto di periferia a insegnare calcio ai bambini”.
A 80 anni la troviamo ancora in campo, bella sorpresa.
«Sì, sorprende anche me, però mi piace stare con i bambini, insegnare loro i valori dello sport senza l’assillo di formare campioni. Certo, se vedo qualcuno che merita chiamo subito l’Atalanta».
Già, l’Atalanta. Le è rimasta nel cuore.
«Beh, è la squadra della mia città. Ho debuttato in B a 18 anni. Poi ci sono tornato a chiudere la carriera, giocando fino a 41».
Si sarebbe mai immaginato la sua Atalanta in Coppa dei Campioni?
«Direi proprio di no. Ma a Bergamo in questi anni con Gasperini c’è stata un’evoluzione impensabile. Ha fatto crescere anche noi tifosi: non siamo più i bortolini di una volta… Capisce il bergamasco?»
Merito di Percassi, avete giocato assieme?
«È un grande presidente, ma come giocatore valeva un po’ meno».
Dall’Atalanta lei andò alla Roma, come fu quel passaggio?
«Tre anni magnifici. Io ero un ragazzo di provincia che approdava nella capitale, quasi con la valigia di cartone».
Poi, dopo Verona, il Milan.
«Aveva smesso Cudicini e cercavano uno di esperienza da affiancare a Vecchi. Arrivammo alla finale di coppa Uefa. Poi feci due anni il secondo a un grande come Albertosi».
Lei ha una sola presenza in Nazionale ma ha vissuto il Mondiale del ’66 con la tragica Corea.
«Bastava un pari per passare il turno. E sembrava una cosa facile. Ma ci andò tutto storto. A Milano, mentre tornavamo dall’aeroporto c’era un gruppo di motociclisti che ci inseguiva e tirava pomodori».
I migliori portieri italiani di tutti i tempi?
«Partiamo da Ceresoli, grande maestro, un teorico del ruolo. Poi direi Bacigalupo. E quelli dei miei tempi, tanti e tutti forti: Albertosi, Zoff, Sarti, Anzolin…».
Noi puntualizziamo che la finale di coppa delle Coppe fu persa per 2-0 contro i tedeschi del Magdeburgo. Che nella sua generazione ha avuto colleghi di altissimo profilo: Albertosi, Lido Vieri, Bordon, Zoff, Negri detto Carburo, Anzolin, Cudicini, Castellini. Ma è riuscito comunque a trovare posto in Nazionale, chiamato ai Mondiali del 1966, e di quei nomi solo Bordon non era ancora in età. Vinse il premio Combi come miglior portiere del campionato 1964-65.

«Albertosi era il titolare dell’epoca, in Nazionale – racconta all’Ansa, ad Adolfo Fantaccini -, io stavo in panchina. Quello, per il ruolo del portiere, fu un periodo molto fortunato in Italia. C’era grande rivalità e, se uno non andava in azzurro, alla fine, si arrabbiava anche di meno».
Carlo Ceresoli era un leone di Highbury, perse con onore contro i “maestri” inglesi, nel 1934. «Mi insegnò tante cose: a stare in porta, soprattutto. È importante, è una questione di geometria e intuizione, perché si deve capire prima degli altri lo sviluppo del gioco. Ceresoli, inoltre, mi ha insegnato a rimanere freddo. Insomma, a fare il portiere per arrivare a certi livelli. Adesso il ruolo è cambiato. Va di moda una figura di estremo difensore molto alto: se non sei sul metro e 90, ti scartano: io sarei stato scartato. A quell’epoca, oltre il metro e 90, c’era solo Cudicini, mentre gli altri erano sul metro e 80. Per me va bene il portiere sul metro e 85, purché abbia tutte le altre caratteristiche. Servono agilità, intuizione, elasticità, senso della posizione, freddezza, doti che la natura può darti. E, soprattutto, serve la testa, non è solo una questione di altezza».
Il giorno della fatal Verona Pizzaballa era triste. «Perchè la “mia” Atalanta stava retrocedendo in Serie B. In estate, poi, per uno strano scherzo del destino, io e Bergamaschi, dal Verona, finimmo proprio al Milan. I miei compagni di ruolo erano William Vecchi e Pierangelo Belli, che poi venne a Verona: io andai per fare la chioccia a Vecchi, rimasi tre anni, giocai solo mezzo campionato. Tornai a Bergamo, poco prima dello scudetto rossonero della stella».
Un ricordo legato al calcio? «Il calcio per me è la vita. Cominciai da bambino, senza pensare a dove potessi arrivare. Ho giocato per 22 anni, ho fatto il dirigente per 10, oggi insegno ai ragazzi l’educazione allo sport. Il calcio mi è rimasto nel sangue». 

“Per i suoi 80 anni – scrive Guglielmo Longhi, su La Gazzetta dello sport -, i figli gli hanno regalato un weekend con la moglie a Venezia. “Ho ancora la figurina, me l’ha regalata un professore di Avellino per i 50 anni della Panini. La tengo tra le cose importanti della mia vita, ogni tanto la guardo, mi dicono che sta aumentando di valore”.
Dall’80 al ’90 ha lavorato all’Atalanta come responsabile del vivaio e consigliere. «Avrei voluto restare, la società ha fatto scelte diverse. Ma ho lanciato tra gli altri Donadoni, Tacchinardi, Locatelli».
All’inizio della carriera faceva il portiere e il droghiere…
«Don Antonio, il prete che mi seguiva, diceva: “Il pomeriggio sogni, la mattina ti svegli e vai al lavoro. Così rispetti la vita reale”».
Quanto ha guadagnato?
«Al massimo si arrivava a 2-3 milioni di lire l’anno. Oggi il calcio è un business fuori controllo».
L’attaccante che temeva?
«Quello piccolo. Hamrim mi ha fatto più gol di Riva».
A noi non resta che cercare l’Atalanta vincitrice della Coppa Italia, nel ’63. Davanti a Pizzaballa c’erano Pesenti e Nodari, Veneri, Gardoni e Colombo. Il numero 7 non poteva che essere Domenghini, poi Nielsen, Calvanese, Mereghetti e Luciano Magistrelli. L’allenatore era Tabanelli. Fra questi sono viventi Pesenti, classe ’41, Veneri (’39), Colombo (’33), Domenghini (’41), Calvanese (argentino del ’34) e Mereghetti (’38). Ma il mito resta il portiere. Perchè le formazioni cominciano dal portiere e perché con quel cognome era unico, anche senza la figurina.

Vanni Zagnoli

Da “Assocalciatori.it”

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