Assocalciatori.it, la storia di Francesco Serafino, dalla provincia di Cosenza al Boca Juniors: “Come solo un altro calabrese, 52 anni fa”.

La storia di Francesco Serafino, sempre suggestiva, dalla Calabria a Rho all’Argentina, nel quartiere di Tevez.

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E’ un Natale speciale per Francesco Serafino, 17enne cosentino di Fuscaldo, tesserato nelle giovanili del Boca Juniors, la squadra più prestigiosa di Buenos Aires e fra le più titolate al mondo, con 18 trofei internazionali, al pari di Real Madrid e Milan. Ora è in vacanza in Italia, mancava da qualche anno, e da Milano è partito per il Sud.

Francesco, come sei finito in Sudamerica?
“Mio padre Domenico è musicista, aveva un contratto di lavoro qui e l’ho seguito, mentre mamma Anna è rimasta in Calabria per non perdere il posto in una casa di riposo, così viaggia spesso, per venirci a trovare. Papà suona la chitarra nei concerti e compone con il piano, entrambi hanno 40 anni”.

Sei diventato il primo italiano tesserato nel Boca dopo 52 anni: nel 1961, Nicola Novello partì, sempre dalla costa tirrenica della Calabria, e lasciò il segno come attaccante gialloblù.
“L’avevano ribattezzato Nicolas. E Maradona qui segnò 28 gol nell’81-82, prima di passare al Barcellona. Anche Gabriel Omar Batistuta è stato grande, in questo club”.

Sei nato a Rho, nel Milanese, ma già a 2 mesi eri sceso al Sud. Dove hai giocato?
“A 5 anni cominciai nella Fuscaldo, a 10 ero alla Reggina. Brillavo sulle punizioni: ho sempre segnato parecchio, nonostante la bassa statura. Mi muovo in agilità, partendo da destra”.

A 11 anni il passaggio alla Roma, la squadra del cuore.
“Come responsabile del settore giovanile c’è Bruno Conti, fondamentale per avermi fatto salire da Reggio Calabria. Apprezzo la tifoseria giallorossa, passionale come la torcida sudamericana”.

Sembri un professionista affermato, hai persino un filmato che racchiude l’intera carriera…
“Inseguo il mio sogno. Sono emigrato a 12 anni, al club Parque e poi al mitico Argentinos Juniors, dov’era cresciuto Maradona. Amo proprio palleggiare, anche da solo, e l’ho fatto a lungo pure allo stadio Bombonera, a Baires”.

Come ti sei ambientato, laggiù?
“Non è stato facile, tantomeno a 12 anni. Con sacrifici e immensa passione ho superato tutti gli ostacoli”.

Com’è la giornata tipo?
“Sveglia alle 6, ci alleniamo la mattina, a scuola vado al pomeriggio, dalle 17 alle 23,30: sono al quarto anno delle superiori e senza voti adeguati non mi riconfermano. In casa Amarilla, inoltre, non possiamo tenere accesi i cellulari: è il centro sportivo accanto allo stadio, dove faccio colazione con i compagni, pranzo e gioco”.

Sino a due stagioni fa hai vissuto nel quartiere Fuerte Apeche, dov’era cresciuto Carlitos Tevez.
“Nel barrio di Ciudadela avevo imparato il rispetto per tutti, anche in campo: sul sintetico regalato proprio da Tevez agli amici d’infanzia. Nelle partitelle i difensori picchiano duro, mi è capitato di affrontare uno dei fratelli dell’attaccante juventino: l’allenatore non fischiava mai il fallo, io dovevo rialzarmi e inseguire l’avversario per rubargli nuovamente la palla. Questo esercizio serve per aumentare la garra, la rabbia agonistica”.

Rimanesti 9 mesi, nella pensione per giovani calciatori.
“Il quartiere è a rischio, pieno di contraddizioni. Al tempo stesso è inferno e paradiso. A qualsiasi ora si assiste a retate di polizia e a risse armate, persino i sequestri sono ricorrenti. Le strutture sono fatiscenti, la tensione si respira nell’aria e pare soffocarti. Negli occhi di molti adolescenti però si avverte una grande speranza: tanti non frequentano la scuola, volontari li incitano a continuare. Ci si aggrappa a qualsiasi cosa dia speranza per un futuro migliore. Esistono talenti da sostenere”.

Ecco dove nasce l’agonismo di Carlitos…
“Là è un idolo, appoggia persino un gruppo musicale, i Piola Vago. Agli amici di infanzia ha regalato quel campo da calcio, proprio per tenere i ragazzi lontani da spaccio e violenza”.

Chi è il tuo modello?
“Ammiro Leo Messi, il Kun Aguero, lo stesso Tevez. Anche Pirlo. I grandi giocatori, insomma. Cerco di apprendere qualcosa da ciascuno, un giorno vorrei debuttare con l’Italia”.

Nel calcio argentino sei l’unico italiano?
“C’è solo un 21enne, Simone Napoli, difensore centrale del Gimnasia La Plata, ex primavera della Juventus e del Torino”.

È stato l’anno del mondiale, l’Argentina come ha vissuto la cavalcata verso la finale?
“Con una passione impossibile da descrivere. Prima di ciascuna delle 7 partite, si leggeva l’ansia negli occhi della gente. Al gol di Thomas Mueller per la Germania, con il Brasile, a Buenos Aires avevo sentito un boato incredibile. Tutti contro i verdeoro, esiste una grande rivalità con i cugini. E così è stato anche per le 6 reti successive. Nella finale contro i tedeschi, la gente sperava almeno nei rigori, l’Albiceleste c’è andata vicina”.

Un decennio fa, l’Argentina viveva una grande crisi. Si è ripresa?
“L’economia è migliorata notevolmente, la recessione si avverte meno rispetto all’Italia. Nel Fuerte peraltro ho visto la povertà ma pure solidarietà”.

Per questo Tevez ai gol esponeva le scritte “Fuerte Apache” o “Ciudad Oculta”.
“Per l’orgoglio degli argentini. La cavalcata alla Maradona valsa il 4-0 al Parma è stata accolta con entusiasmo dalle televisioni e dal “pueblo”: Carlitos è il calciatore dei più umili. Là tutti lo hanno rivoluto nella Seleccion del Tata Martino”.

È possibile vederti protagonista nel nostro calcio?
“Si parla di diversi club che mi vorrebbero, ma di concreto non so cosa ci sia. Credo siano solo voci”.

Vanni Zagnoli

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