Il Messaggero di Sant’Antonio. Il sogno di Eyob. Dall’Eritrea all’Italia, la storia di riscatto di un atleta, e di un uomo, bronzo all’ultima Maratona di New York. Il primo italiano venticinque anni dopo il campione olimpico Stefano Baldini

(ilmessaggerodisantantonio.it)

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Vanni Zagnoli

Ha una storia unica Eyob Faniel Ghebrehiwet, terzo alla maratona di New York, a fine ottobre. Al comando per 18 chilometri, è ripreso al 29° e arriva dietro al keniano Albert Korir e al marocchino El Aaraby. Era dal 1997 che un italiano non finiva sul podio maschile, dal bronzo di Stefano Baldini, campione olimpico ad Atene 2004.

Nella parabola di questo corridore c’è un persino un kalashnikov, da cui non si separava mai mamma Mitsal, asserragliata sui monti, per la libertà dell’Eritrea. 

“Aveva conosciuto papà Hailè – racconta Eyob – sulle alture africane, lei lasciò Asmara e la famiglia per raggiungere i partigiani che combattevano sulle montagne, per l’indipendenza dall’invasore etiope.

Iniziarono a battersi che papà Hailè aveva 16 anni e lei 14. Mamma tenne botta per 16 anni, sino ai 30: 

Tornò in città nel 1991, alla fine della guerra, quando il nostro Stato ottenne l’indipendenza. Anche mio padre era un combattente e dal loro matrimonio siamo nati io, Salomon e Meron, i miei due fratelli. Mamma per me è il faro: la fatica della maratona è poca cosa, rispetto alle sue e ai pericoli che ha corso». 

Eyob nasce nel ’92, un anno prima dell’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. Nel tempo si è tatuato un ritratto della madre che imbraccia appunto il fucile mitragliatore.

Nel 2001 il padre si trasferisce in Veneto, leva le schegge da una spalla e lenisce le ferite ereditate dalla guerra. “Viene operato tre volte, poi trova lavoro come operaio in fabbrica”.

Lo spostamento a Bassano del Grappa viene facilitato dai meriti conseguiti da partigiani, pochi mesi dopo arrivano i tre figli.

Eyob inizia a correre, è filiforme, 45 chili, abbassa i suoi tempi personali ma si fa male spesso, soprattutto all’anca. 

Gioca anche a calcio, da difensore, nel San Vito, di Bassano, si infortuna spesso, soprattutto alle caviglie. E’ portato all’atletica da Vittorio Fasolo, che l’aveva notato nelle campestri della scuola. “Per un anno ho continuato a praticare calcio e corsa, mi allenavo al campo dalle 18 alle 19,30 e poi alle 20 andavo a giocare a pallone, il mister mi abbonava il riscaldamento”.

Nel 2011 finisce le scuole superiori, non è soddisfatto dei risultati nei 5mila e nei 3mila siepi, torna in Eritrea per allenarsi con gli atleti forti che conosce. 

“Ci rimango due mesi, poi sei. Esagero con i carichi di lavoro, rientro in Italia e ho guai fisici, non riesco più a correre nè a guarire. Stanco, chiudo con la corsa e mi metto a lavorare”. 

Fa le pulizie. “Mi sono occupato della manutenzione in una piscina, senza più toccare le scarpe da running. Poi però la corsa mi manca e riprendo ad allenarmi”.

Il vicentino di Asmara strofina  stracci sul lastricato che all’alba va a pulire, i detersivi gli rovinano le mani eppure servono a racimolare i soldi sufficienti per alimentarne i sogni di fondista.

Da metà 2012, si sveglia alle quattro e mezza e alle cinque inizia a fare l’operaio, come un qualsiasi invisibile. “Mi serve soprattutto per prendere la cittadinanza italiana, occorrono 3 anni di contributi, oltre ai 10 di residenza”.

Nella primavera del 2015, a 22 anni, lascia le pulizie e diventa professionista. “Praticamente è impossibile fare atletica ad alto livello e lavorare. Dopo un po’ di alti e bassi, accantono qualche soldo e provo un’ultima volta ad allenarmi a tempo pieno”.

Convince, soprattutto su strada, non su pista, ha due allenatori, Marco Maddalon e Giancarlo Chittolini, che lo spingono alla mezza maratona, la prima è a Verona, nel 2013, quattro anni più tardi vincerà la maratona di Venezia.

Il decreto presidenziale è dell’ottobre 2015, da lì è italiano e sarà allenato da Ruggero Pertile, che l’anno successivo sarà quarto nella maratona mondiale di Pechino. 

“Il passaporto arrivò a vent’anni, dopo un percorso scolastico completo e il periodo in cui ho lavorato per dimostrare la mia indipendenza economica, pur dovendo rinunciare a molte convocazioni in azzurro. E’ ingiusto che ragazzi con tutti i requisiti aspettino la cittadinanza per anni”.

Eyob trova un punto di contatto, fra Eritrea e Italia: “Il legame con la mia terra è forte, mi ispira. Torno spesso per allenarmi, in altura e per salutare la nonna paterna, che vive ancora là”.

Da piccolo gli parlava in italiano. Lei dal 2016 è bisnonna, dal momento in cui Eyob è diventato papà, grazie alla compagna Ilaria Bianchin, laureanda in scienze politiche, che gli dà Wintana e poi Liya.

“Ho ricordi bellissimi dell’infanzia in Eritrea, sono custoditi gelosamente, con niente eravamo contenti come avessimo tutto. In Italia vedo troppa gente, anche bambini, che ha tutto ma non è mai felice. Il sabato mattina non c’era la scuola, con mio fratello e i suoi amici, più grandi di me di due anni, ci alzavamo alle 5 e mezza, per scendere e camminare per 15 chilometri da Asmara al mare. Due ore e ritorno, in salita, di corsa, giocavamo a chi riusciva a tornare su per primo”. 

Eyob era chiamato irab, gazzella, in tigrino, una delle lingue parlate in Eritrea, insieme all’italiano, usato dagli anziani.

“Da bimbo ero in una casa piccolissima, quando giocavo a pallone, per strada, dopo la scuola, improvvisamente ci urlavano di rientrare, perché arrivavano le bombe. E magari il giorno dopo non potevamo neppure andare a scuola, dovevamo restarcene nascosti, senza giochi, non ce n’erano. Subentrava la paura dell’ignoto”.

Dal 2018 è alle Fiamme Oro di Padova, per New York si è preparato in altura, nella città natale, Asmara, e poi in Kenya, a Kapsabet, con il nuovo allenatore, Claudio Berardelli, il quarto.

“Tra gare e raduni, rimango lontano da casa anche 7-8 mesi l’anno. Quando posso, porto con me la famiglia. E vorrei fare al meglio il lavoro di papà…”.

A Bassano troneggia il famoso ponte degli Alpini, unisce le rive del Brenta, è dedicato ai soldati che l’attraversavano durante la Grande Guerra. “E’ il ponte ideale tra la mia cultura d’origine e quella italiana. In Veneto ho trovato compagni, professori magnifici e amici, per una integrazione modello. Dell’infanzia eritrea conservo sapori, suoni e profumi, ma è qui che la mia vita ha preso una direzione impossibile, in Africa. Ora sogno di vincere l’olimpiade di Parigi 2024, per me, l’Italia e per l’Eritrea che soffre”.

Eyob non ha patito razzismo. “Qualche insulto, nulla di così grave. E’ toccato, invece, a cari amici, non è mai bello: è ignoranza che caratterizza ancora certa gente, sul colore e la provenienza. Basta un pizzico di melanina in più e sembra che tu sia di un altro mondo, ma quella mi aiuta quando c’è troppo sole… Scherzi a parte, l’italianità va valutata a ritroso, per chi ritiene il nostro Paese per i bianchi, comunque per i caucasici”.

Eyob si sente di dare un consiglio agli africani venuti da noi. “Imparate la cultura autoctona, della nazione in cui volete vivere, quanto hanno insegnato i genitori, a distanza di chissà quanti chilometri. Apprendendo la tradizione locale, uno straniero se la può cavare meglio, nei modi di dire e di fare: certi atteggiamenti possono essere ritenuti spiacevoli o non accettati. Non si cambia la cultura propria ma se ne impara una differente. Quanto è scontato in Africa, magari non lo è in Europa”.

Eyob è un rarissimo esempio di ortodosso dal continente nero. “Purtroppo in Italia siamo in pochi, fedeli, e ancor meno sono le chiese, fatico a praticare la religione. In Eritrea a 2400 metri di altitudine spesso vado ad allenarmi e lì sono più spinto ad andare a pregare”.

Eyob Faniel è semplicemente un esempio, il figlio che tutte le madri vorrebbero avere. Mamma Mitsal lo sa e adesso non ha più bisogno del kalashinikov.

“La versione integrale dell’articolo pubblicato su “Il Messaggero di Sant’Antonio”

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