Il Messaggero. Pallanuoto, le vittorie di Martina Miceli: sul podio come campionesse di parità (ma quanta fatica)

(Ilmessaggero.it)

https://www.ilmessaggero.it/donna/mind_the_gap/pallanuoto_le_vittorie_di_martina_miceli_podio_campionesse_di_parita_sport_donne_mind_the_gap-5733463.html

di Vanni Zagnoli

«No, non sono mai stata molestata. Ma quando mi hanno detto: Che colpa ne ho io se siete nate donne? È stata come una molestia». Martina Miceli, 47 anni, romana, è la pasionaria della pallanuoto italiana, la più nota fra le nostre allenatrici di sport di squadra, dietro a Milena Bertolini e a Carolina Morace. Sin da quando era giocatrice si è battuta per la parità dei diritti.

La nazionale di pallanuoto maschile ha fatto il suo debutto nel 1920, mentre il Setterosa ha debuttato solo agli Europei del 1989…

«Però vincemmo due mondiali e l’olimpiade del 2004, ad Atene. Allora ci fu anche un’interrogazione parlamentare perché le medaglie del nostro sport fossero pagate allo stesso modo e non la metà, rispetto ai podi maschili. Andammo più volte al Maurizio Costanzo show, ci furono scioperi, interviste e colloqui a livello istituzionale. Alla fine abbiamo ottenuto l’equiparazione, come già accadeva per le nuotatrici».

Come convinse il presidente Paolo Barelli, tuttora in carica?

«La battaglia fu senza esclusione di colpi, come in acqua. L’equiparazione forse oggi per le nuove leve è scontata, ma per la nostra generazione non lo fu affatto. Tuttavia non riuscimmo mai a far riconoscere lo stesso trattamento economico per le borse di studio delle nazionali».

In realtà adesso per le atlete è garantita la stessa cifra dei pallanuotisti.

«E questo mi rincuora».

A occhio era lei la sindacalista di quel Setterosa…

«Eravamo tutte molto compatte, e questo ha rappresentato la nostra forza; avevamo vinto tutto, nessuna si è mai tirata indietro. È normale che una squadra maschile abbia più sponsor, le istituzioni però dovrebbero tentare di equiparare i generi, dal momento che noi non facciamo meno fatica o sacrifici inferiori, in vasca».

Da allenatrice ha avvertito discriminazioni?

«In panchina è diverso. L’unica distinzione non importa se sei allenatore o allenatrice – è essere credibile. Il mio disagio è verso chi pensa che le allenatrici siano lì perché donne, e non perché capaci e tecnicamente preparate. Non mi piace essere una specie protetta, se alleno ad alti livelli è perché ottengo risultati, non perché devo rientrare nelle quote rosa».

In che senso?

«Quando ho ottenuto dalla federazione il compito di allenare la nazionale universitaria mi hanno dato veramente fastidio i messaggi del tipo: finalmente una donna, finalmente le quote rosa rispettate. Mi piace pensare di essere lì non perché donna ma perché valgo. Se raggiungerò ulteriori traguardi, sarà solo per quello che avrò dimostrato in piscina».

Da chi le sono arrivati questi apprezzamenti?

«Sa più di uno, anche sui social. Da allenatori non si bleffa, si va avanti solo con la qualità».

Ha faticato per raggiungere questi livelli?

«Come sempre, anche da atleta, è il bello dello sport».

Mai subito molestie?

«No. All’epoca delle nostre battaglie ci dissero Non abbiamo colpa se siete nate donne».

E chi glielo disse?

«Non lo rivelo, ma chi lo pronunciò se lo ricorda».

Dov’è cresciuta?

«A Ostia. A 18 anni andai a Catania, per giocare, e poi anche Pescara e Firenze, per poi riavvicinarmi a Roma».

I genitori osteggiarono la sua scelta?

«No, anzi, mi incoraggiarono anche perché loro stessi praticavano il nuoto. Mio padre Enrico, oggi 84 anni, fece mille sacrifici, per assecondare la mia passione».

Cosa manca allo sport al femminile per colmare il gender gap?

«Dovremmo auto-rappresentarci. Non ci sono tante donne fra i dirigenti, e nessuna in ruoli decisionali».

Da “Il Messaggero”

Related Posts

Leave a reply