Assocalciatori.it, il pallone racconta: i 60 anni di Alessandro Altobelli. “Spillo” racconta: “Il calcio dei miei figli, la fedeltà a Brescia e a mia moglie. La tv, da due anni sono a Bein sport. Evaristo Beccalossi e l’Inter, Bersellini e Trapattoni, Tardelli e Dossena”

Sabato Alessandro “Spillo” Altobelli ha compiuto 60 anni, è stato uno dei più grandi attaccanti di sempre, nel calcio italiano. Era tecnico, dai piedi raffinati e acrobatico, con la testa.
Cresciuto nel Latina, a metà anni ’70 si trasferì al Brescia, che lo fa debuttare in B, prima del grande salto all’Inter di cui diventa una bandiera: 11 stagioni, 466 presenze e 209 gol, uno scudetto e due Coppe Italia. In totale assomma 337 partite e 132 reti in A: 108 e 33 gol in serie B; 93 presenze e 56 gol in Coppa Italia, record assoluto della competizione.

Sonnino l’ha celebrato con una settimana di feste, tornei e dibattiti nel nome anche del suo titolo mondiale, con 61 presenze e 25 gol in Nazionale. Il tour ha coinvolto l’intero comune pontino, con incontri tematici sulla carriera, per sensibilizzare gli alunni alla pratica sportiva, e lezioni di tecnica calcistica sui campi.
Si è cominciato lo scorso martedì, con gli incontri con i vecchi compagni della “Spes Sonnino”, la squadra degli esordi. C’era anche i piccoli alunni della scuola di musica del maestro Lacerenza.
“Hanno persino suonato l’inno” – racconta Spillo – “e poi c’è stata una partita con i vecchi compagni, amici magari ancora in attività fra gli amatori: tutti volevano giocare, nessuno quasi accettava di uscire; insomma, era tutto come una volta”.
E poi un dibattito qualificato, moderato da Xavier Jacobelli, direttore editoriale di tuttosport.com e di corsport.com, in una vecchia chiesa di Sonnino.
“Con Piero Calabrò, giudice a Monza e Lecco, e Ciro Angelillis, che indaga sul calcioscommesse a Bari. Con Felice Casson, pm e già candidato sindaco a Venezia, e con l’onorevole Paolo Caruso”.

E allo stadio comunale San Bernardino, sabato, la partita fra le Glorie del 1982 e i magistrati, allenati da Gigi Maifredi, finita 6-3.
“In porta Tacconi; in difesa Gentile, Marini, Marcolin e Candela; a centrocampo Bruno Conti, Antognoni, Mattia, il mio secondogenito, e Pigolotti (sponsor della Sdl, ndr); in avanti io e Muraro, come ai vecchi tempi dell’Inter”.

Doveva venire anche Graziani, con cui staffettò al mondiale dell’82.
“Ma venerdì era stato operato. Ho segnato due gol subito e poi mi sono dato una calmata”.

C’era la volontà di sostenere concretamente la Onlus “Nel sorriso di Valeria”, attiva in Italia e in Africa.
“Non si pagava, qualcuno però ha fatto beneficienza e così siamo arrivati a 2mila euro raccolti. Erano presenti 3-4mila persone, praticamente metà del paese”.

Chissà quanti auguri ha ricevuto…
“Infiniti. Persino da dirigenti, come il ticinese Gianni Infantino, in Madagascar, nel tour elettorale come candidato alla presidenza della Fifa. Tramite whatsapp mi hanno contattato anche il tennista Fabio Fognini e il nuotatore Filippo Magnini, il vicepresidente dell’Inter Javier Zanetti e persino Icardi. Il messaggio più divertente è stato di Tacconi, video, con le coppe sullo sfondo. “Se giocavi con me, avresti vinto tutte queste, ma eri con Zenga e non hai vinto molto… E’ stato molto simpatico”.

Ricominciamo dal nomignolo. Perché Spillo?
“Per la magrezza. Me lo affibbiò un maestro elementare che veniva sempre a vedere gli allenamenti dei ragazzi del Latina e mi accompagnò con grande fortuna. Ero uno e 84 per 68 chili, adesso sono 85…”.

Veniva dalla Spes, ovvero speranza, la squadra del suo paese, Sonnino.
“L’aveva messa in piedi il barbiere Gaspare Ventre, oggi 68enne, aveva proprio la bottega in piazza. Faceva aggregazione, almeno così ci potevamo sfogare. Terminata la terza media andai a lavorare dal macellaio Ermanno Merluzzi, ma appena potevo lasciavo il bancone e scappavo a giocare”.

Papà Antonio, scomparso il 5 febbraio nel 2009, pensava di affidarle un mestiere…
“E allora per un anno andai a Latina, proprio dal fratello di Merluzzi: mi avevano accolto come fossi uno di famiglia. Avevo 14 anni e all’epoca non pensavo che il calcio sarebbe diventato il mio mestiere”.

E allora come si è affermato?
“Grazie all’umiltà dei genitori. Mio padre faceva il muratore, mamma Giovanna Grossi è sempre stata casalinga e martedì 1° dicembre ha compiuto 80 anni. Quando andava a Roma, per papà era come fare un viaggio all’estero… Veniva pagato a cottimo, partiva in pullman alle 4, lavorava magari per 5-6 ore ma poi tornava solo alle 19”.

Le grandi motivazioni sono decisive?
“La fame di arrivare conta. Ho visto ragazzi che si sono persi perché erano giocatori solo da partitella infrasettimanale. Il talento conta, servono anche la passione e lo spirito di sacrificio”.

Da Latina, a neanche 19 anni passò al Brescia, per 3 stagioni con 26 gol.
“Arrivai nel 1974 e presto nacque il tandem con Evaristo Beccalossi: giocava nella Primavera, vinse lo scudetto e regalava numeri. Condividemmo un decennio splendido, segnava e sfornava assist”.

Però in Nazionale arrivò solo lei…
“Dopo però aver segnato 30 gol con l’Inter. Avrebbe meritato di venire al Mundial dell’82, ma Antognoni aveva fatto Argentina ’78 e per il gioco del ct Bearzot era più lineare. Evaristo aveva più fantasia”.

Siete rimasti amici?
“Sempre. Del resto è stato uno dei migliori di sempre, un genio del calcio, quasi 40 anni fa non c’erano tanti come lui, nel mondo”.

A 28 anni, però, Beccalossi passò alla Sampdoria e si allontanò dal grande calcio.
“All’epoca iniziavano ad arrivare gli stranieri e lui quando finiva in panchina si buttava giù, non aveva la forza caratteriale che serviva”.

Fu determinante per lo scudetto del 1979-80 e in effetti fu l’ultima stagione senza stranieri…
“La nostra fortuna fu Eugenio Bersellini. Lo chiamavano ‘sergente di ferro’, ma era preparato e per noi risultava come un padre. Ci insegnò a non pensare ai soldi: ‘Vengono molto dopo, l’importante è che in campo metti l’anima’. Oggi credo nessuno ragioni così. Adesso ha 79 anni, non sta benissimo, resta una grande persona”.

In quell’anno la Juve di Trapattoni perse a San Siro per 4-0.
“Fu la mia partita perfetta, feci tre gol alla difesa più forte del mondo e l’assist a Muraro per il poker. In quel tempo la rivalità era soprattutto con il Milan, che con Gianni Rivera arrivò alla stella”.

Quale fu il gol sbagliato nella maniera più assurda?
“Due rigori nella stessa partita, uno alto e l’altro contro il portiere, a Malta, nel 1986. Vincemmo 2-0, perciò la storia non è così ricordato. A differenza, per esempio, dei due rigori sbagliati da Evaristo nell’82, contro lo Slovan Bratislava”.

Era a San Siro, primo turno di Coppa delle Coppe e la Cecoslovacchia era ancora unita.
“Finì pure 2-0, con gol mio e di Sabato. Una storia che il comico Paolo Rossi ha inserito nello spettacolo ‘Su la testa’, trasmesso anche in televisione”.

L’1 marzo del 1980, invece, deflagrò il totonero, il primo dei tanti scandali delle scommesse.
“I segnali erano iniziati l’anno precedente. Peraltro l’Inter non è mai stata sfiorata da sospetti di combine, nella sua storia”.

Nel gennaio dell’80 Beppe Bergomi debuttò in Coppa Italia, a 16 anni. Di recente si è preoccupato per l’uso di sostanze pericolose per la salute.
“In 11 anni di Inter, non ho mai visto pasticche nelle bevande o flebo per giocare da infortunato. Ne saltai appena una decina, quando non ero in forma Bersellini mi vedeva semplicemente stanco e allora mi faceva andare in panchina con lui. Accettavo la scelta senza lamentarmi”.

Nell’82 il mondiale. Giocò quasi tutta la finale, grazie all’infortunio alla spalla di Ciccio Graziani.
“Fu una grande gioia segnare contro la Germania Ovest. Era il terzo gol, su contropiede di Bruno Conti: stoppo, aspetto l’uscita di Schumacher e la metto dentro. Ero in stanza con Beppe Dossena e quella Nazionale era composta da 22 grandi uomini, carismatici e con lo spirito vincente. C’erano 6-7 juventini, altrettanti dell’Inter e poi ragazzi della Fiorentina, del Torino. Guidati da una grande persona”.

Ora esiste il Pallone d’oro anche per gli allenatori, all’epoca l’avrebbe meritato anche Bearzot?
“Sicuramente, ma già nel ’78, in cui diede spettacolo e perse solo con l’Olanda e il Brasile. Quattro anni più tardi si aggiudicò il Mondiale battendo Argentina, Brasile, Polonia e Germania”.

Perché quell’epoca resta magica?
“Era il periodo più difficile, per giocare a calcio, dal 1975 al ’90. Bisognava avere tutto: tecnica, completezza e testa, cuore e sacrificio. Negli ultimi 25 anni, ha cominciato a imperare il fisico: fa carriera chi più corre”.

Allora, però, il calcio era più lento.
“Non sono d’accordo. Prendete Tardelli, correva tanto, aveva agonismo e tecnica. Era un fenomeno, il centrocampista simbolo di quell’era calcistica. Come Lele Oriali”.

Lei in che cosa avrebbe potuto migliorare?
“Non ero possente, ma bastavano le mie qualità. Caratterialmente non mi sono mai sdraiato davanti a nessuno: allenatori, presidenti”.

Sarà per questo che nell’88 passò dall’Inter alla Juve?
“Semplice, non andavo d’accordo con Giovanni Trapattoni… Avevo un’altra stagione di contratto, con il presidente Ernesto Pellegrini decidemmo di lasciarci in anticipo. Andai agli Europei, segnai alla Danimarca e poi giocai la semifinale, persa contro l’Urss, all’ultima manifestazione da unita. Gli anni erano 32 anni, stavo bene, mi chiamò Giampiero Boniperti e andai a Torino, affrontando il rischio di essere etichettato come traditore. Certo oggi rimane il rimpianto di non aver chiuso all’Inter, avrei meritato quel secondo scudetto, tanto più dei record”.

L’ultima stagione fu nuovamente a Brescia e in serie B, con 32 presenze e 7 gol.
“Ho voluto così, lasciare da dove ero partito. Lottammo anche per la promozione, con il romagnolo Franco Varrella in panchina, poi vice di Arrigo Sacchi in Nazionale, agli Europei dell’86. All’ultima giornata battemmo il Padova per 2-0, salutai con una doppietta”.

Si ritirò nel giugno del 1990, a 34 anni. Oggi in chi si rivede?
“Nessuno. I confronti si fanno in età diverse, vediamo tante partite, ci sono gol e caratteristiche differenti, non tanti si avvicinano ai miei numeri. Non sono stato superiore a nessuno, ma nessuno può dire di essere stato migliore di me. Vedo statistiche, giornalisti che fanno classifiche, io non le amo”.

Come si presenterebbe ai più giovani, che non la conoscono?
“La mia forza è sempre stata la normalità. Alcuni bambini presenti a Sonnino sono andati a vedere i video delle mie azioni, dei miei gol, assieme ai genitori. Ho scoperto ancora una volta di più, in questi giorni, come la gente mi apprezza: non per le vittorie ma per la serietà. In tanti mi avrebbero lasciato il proprio portafoglio, si fidano”.

Aveva il procuratore?
“No, ho sempre fatto tutto da solo. Alcuni giocatori già l’avevano”.

Ha la stessa moglie da sempre…
“Già, con Antonella ci conosciamo dal ’74, è casalinga, bresciana. E ancora abito a Brescia”.

Avete due figli: Andrea, classe ’77, lavora nell’A2A di Brescia, ovvero l’azienda di gas, acqua e luce.
“Giocò nella Primavera delle rondinelle e mollò presto. Il confronto con me era ancora troppo vivo, non lo resse, anche se faceva il centrocampista offensivo. Convive con Ilaria”.

Mattia, invece, classe 1983, è stato un buon professionista.
“Gioca a Rezzato, in Eccellenza lombarda, in una grande società, con gli stessi proprietari del Mantova: rappresentano la Sdl, con Sandro Musso presidente, Serafino Di Loreto e il dg Stefano Pigolotti, in campo con me a Sonnino. Mattia era stato nell’Inter Primavera, vinse lo scudetto, la Coppa Italia e il torneo di Viareggio, con Beppe Baresi e poi Pancheri allenatori. Esordì in Coppa Italia, feci due preparazioni con la prima squadra, con Marcello Lippi ed Hector Cuper. Giocò nella Spal e nello Spezia, ad Avellino e nella Torres, in Svizzera al Chiasso, a Montichiari e nel Rodengo, nel Bresciano e in altre società”.

È sposato con Stefania Leotta, che gli ha dato due bambini: Carolina, 4 anni e mezzo, e Leonardo, 2.
“E così sono nonno e per due volte…”.

Tre anni fa la storia di Mattia ebbe un rilievo nazionale: lavorava in un albergo, di notte.
“Andava ogni tanto a dare una mano a un mio amico albergatore, Gianfranco, all’hotel La Vela, a Brescia”.

Il suo cognome è l’anagramma di Balotelli…
“Ma tra me e lui c’è un centinaio di gol di differenza… Lo conosco dai tempi delle giovanili al Lumezzane, è un ottimo centravanti, il problema è che presto hanno pensato di farne il Cristiano Ronaldo italiano e così è stato rovinato. Ora dovrebbe ripartire da sotto zero, neanche da zero, gli auguro di riuscirci”.

La sua Inter ha perso la testa della classifica e fra le squadre di vertice è la più esterofila, assieme alla Roma.
“Quasi tutte le squadre puntano sugli stranieri, non demonizziamoli perché nonostante la loro abbondanza abbiamo vinto il Mondiale del 2006 e siamo andati in finale agli ultimi Europei. Il problema è che troppi sono scarsi, rubano il posto a molti giovani italiani. Sono per l’apertura totale, l’importante è che siano bravi, non semplici affari per procuratori, dirigenti e presidenti”.

Oggi l’Inter segna poco, eppure Icardi fatica per trovare il posto fisso.
“Se hai uno come l’argentino devi metterlo nelle condizioni di giocare sfruttando le sue caratteristiche. Non va discusso: un attaccante deve sentire la piena fiducia: di società, allenatore e compagni. Altrimenti finisce che se ne andrà e l’Inter perderà un altro grande attaccante: accadde già con Boninsegna, Vieri e Ronaldo…”.

Come tanti grandi ex, lei si è dedicato molto alla tv.
“Ho iniziato da Mediaset, poi con la Rai, sino al passaggio a Teletutto, a Brescia. Per 3 anni comprai spazi televisivi a Rtb Brescia, avevo ospiti i giornalisti Alfredo Pedullà, oggi a Sportitalia, Xavier Jacobelli, Franco Ordine (Il Giornale) e Gianni Gianluppi, all’epoca capo dello sport de Il Giornale di Brescia: non sta benissimo, da alcuni anni, resta un grande uomo. E poi c’era Gigi Maifredi”.

Da dieci anni commenta il calcio per la tv di Doha, Al Jazeera.
“Da un anno e mezzo si chiama Bein sport, detiene i diritti televisivi dell’intero calcio mondiale. Ha una piccola sede a Milano, sino a qualche mese fa c’era anche l’ex ct Cesare Maldini, tra i commentatori”.

Come avvenne il contatto?
“Ero in vacanza in Tunisia, quando scomparve l’allenatore Franco Scoglio. Allora il capo dello sport, Isham al Kalzi, mi propose la collaborazione. Conoscevo quella tv solo perché trasmetteva i messaggi inviati da Bin Laden, alla lunga la scelta si è dimostrata azzeccata”.

Quali altri italiani l’accompagnano?
“Francesco Coco è giù in Qatar, presto lo raggiungerò. Bein sport ha un ufficio a Madrid e soprattutto una sede a Parigi: del resto i proprietari della tv detengono anche il pacchetto azionario del Paris Saint Germain”.

Ma il Qatar può organizzare bene il Mondiale del 2022?
“È un bellissimo Paese, perfettamente funzionante. La qualità della vita è elevata e i cittadini rispettano le leggi, a differenza di quanto succede da noi. Il campionato mondiale a dicembre sarà una novità piacevole”.

Vanni Zagnoli

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