Assocalciatori.it, il pallone racconta: Fabio Cudicini, 80 anni. L’ex portiere di Roma e Milan: “La bisettrice nelle uscite a Udine, Andreotti e la Dc alla Roma e al Brescia, le imprese nel Regno Unito. Mio figlio Carlo si divide fra Irlanda e Chelsea”.

Fabio Cudicini, AS Roma goalkeeper (father of Chelsea goalkeeper Carlo)
Fabio Cudicini è padre di Carlo, ex portiere del Chelsea

L’integralità dell’intervista a Fabio Cudicini, pubblicata su assocalciatori.it

http://www.assocalciatori.it/area-news/2015/il-pallone-racconta-fabio-cudicini/

Il 20 ottobre ha compiuto 80 anni Fabio Cudicini, lo Stralongo del calcio italiano, portiere che vinse molto, soprattutto sul finire della carriera.

Fabio, intanto perché quel nomignolo?
“Me lo affibbiò Gianni Brera. Aveva l’hobby di mettere i soprannomi, da biatatino (Gianni Rivera) in giù, era il suo cavallo di battaglia”.

Solo il collega della Lazio Bob Lovati, poi anche allenatore biancoceleste, raggiungeva il suo metro e 90.
“Ero uno e 91, magari adesso qualche vertebra si è chiusa un po’ e un centimetro buono potrebbe essersene andato”.

Mezzo secolo fa, l’altezza media dell’italiano viaggiava ancora fra il metro e 75 e il metro e 80.
“Alcuni colleghi erano agilissimi, palle di gomma. Rammento Franco Luison, sempre al Vicenza, all’epoca”.

Si vestiva da ragno per il suo conterraneo triestino Nereo Rocco. Aveva mani grandi e testa giusta. Iniziò a 20 anni nell’Udinese.
“Come riserva di Gianni Romano, ero titolare nella De Martino, la Primavera di allora. In Serie A, arrivammo quarti e poi noni”.

Anche suo papà Mino era calciatore?
“Giocò nella Triestina, come terzino sinistro, una quarantina di partite in A”.

Fu lui a rifiutarle il trasferimento all’Inter?
“Non voleva che lasciassi Trieste. Frequentavo la terza liceo scientifico, al Guglielmo Oberdan. Gli proposero una scuola statale, voleva che studiassi in un collegio. Mi aveva richiesto Alfredo Foni, feci un provino infrasettimanale all’Arena, ma quelle parate sull’ungherese Nyers e su Benito Lorenzi non servirono a nulla: fui messo in porta fra le riserve, mi opposi con puntiglio ai tiri degli assi nerazzurri dell’epoca”.

E così debutto in A nell’Udinese.
“L’allenatore Bigogno negli allenamenti mi legava con le corde ai pali, per insegnarmi a trovare la posizione giusta. Una volta proseguì sino alle otto di sera e fece accendere i riflettori di 3 macchine, dietro la porta. Aveva la mania della bisettrice, per l’opposizione in uscita, soprattutto sui diagonali. Poi passò all’Inter, proprio al posto di Foni”.

Intanto lei disputò 8 stagioni nella Roma, le prime due da riserva.
“Dietro a Panetti: disputai la prima e l’ultima gara il primo anno, qualcuna in più nella seconda”.

Chi la scelse?
“Il ds Busini. C’erano Ghiggia e Lojacono, talentuosi quanto birichini. Ma soprattutto a Roma ho conosciuto ilragionier Carlo Giampaoli, che mi ha convinto ad avviare l’attività diventata il mio lavoro, dopo il calcio”.

Ovvero l’azienda di pavimentazione e rivestimenti Cudicini srl, in zona Fiera, a Milano.
“Mandata avanti assieme al mio primogenito Stefano, 55 anni”.

Nella capitale lei si aggiudicò due trofei, fra il ’58 e il ‘66.
“Una coppa Italia e, anzitutto, nel 1961, la Coppa delle Fiere, poi Uefa e ora Europa League, con il mio amico e coetaneo Giacomino Losi a sollevare la coppa, da capitano. Eravamo amici di famiglia e vicini di casa, a monte Mario, i figli andavano nello stesso asilo”.

Com’erano i giallorossi dell’epoca?
“Ci chiamavano anche cimitero degli elefanti, nel senso che arrivarono campioni a fine carriera. Schiaffino era un personaggio eccezionale, centrocampista ma fece persino il libero, in 4-5 partite. Ci fu anche lo svedese Nordahl, che poi divenne allenatore, lasciando il posto da centravanti a John Charles”.

A Roma sarebbe rimasto molto volentieri, si oppose il tecnico dell’epoca, il leggendario Oronzo Pugliese.
“Un infortunio all’anca lo indusse a credere che non fossi recuperabile. In effetti mi condizionava un po’, a fine campionato però ero guarito, ma con il mister non ci prendemmo molto. Neanche vorrei parlarne, dal momento che non c’è più e non può controbattere. Non ero molto contento di giocare senza essere al meglio, dovevo parare di piede perché non riuscivo a buttarmi a destra: nell’andare giù, faceva male. Ci furono piccoli dissidi, pare non avesse molta fiducia”.

E così la cedette al Brescia il presidente dell’epoca, Franco Evangelisti, scomparso nel ’93.
“Era l’uomo di fiducia di Giulio Andreotti, fra i personaggi più significativi della Dc. Entrambi erano romanisti per la pelle e mi lasciarono alle rondinelle dove alla presidenza c’era stato Bruno Boni, altro esponente del partito”.

Era comunque in Serie A e disputò 18 partite.
“Esatto. Come allenatore c’era Gei, ex numero 10 della Sampdoria. A centrocampo c’era Ciccio Cordova, ex Inter, arrivato successivamente alla Roma e anche alla Lazio. Ci salvammo anche grazie alle mie parate finali. Il presidente era un gentiluomo, il geometra Aldo Lupi, però con la famiglia non ci ambientammo”.

Nel ’67 arrivò il Milan, con Nereo Rocco.
“Ero in ballottaggio con Zoff. Dino doveva venire a Milano, fu però il Napoli a prenderlo dal Mantova, poiché il patron Achille Lauro non aveva problemi a spendere. Non era il periodo di Maradona ma il club era già competitivo, sul piano economico, e così la trattativa fu molto serrata”.

A quel punto ripiegò su di lei il presidente rossonero, Carraro.
“Luigi, però, non Franco, suo figlio che poi sarebbe arrivato alla presidenza del Coni, della Lega e della Federazione. Mi prese al Gallia per 30 milioni, molto meno di quanto avrebbe pagato per Zoff, purtroppo scomparve in quella stessa stagione e lasciò proprio al figlio”.

A 31 anni molti pensavano che fosse finito.
“Rocco mi chiese se me la sentivo e io non avevo problemi. Avrei dovuto fare da balia a William Vecchi, poi allenatore dei portieri con Capello e Ancelotti. Diventammo amici, ci sentiamo tuttora. Il titolare precedente, Pierangelo Belli, andò successivamente al Verona”.

E il leggendario Nereo la rimprovera  in dialetto giuliano: “I me ga dito che a Roma no te gaveva voja de lavorar”.
“Traduco: “Mi hanno detto che a Roma non avevi più voglia di lavorare”. Erano le voci dell’epoca, ma ero condizionato dall’infortunio. Dunque mi mise nelle mani del suo secondo, Bergamasco, che in allenamento mi massacrava”.

Davvero un giorno pianse?
“Fu un momento di nervosismo, arrivavo alla partita della domenica stravolto dalla fatica della settimana. Il mister mi voleva bene, a posteriori l’ho ringraziato perché mi riportò alla condizione ottimale, ma quelle malelingue sulle scarso impegno ledevano la mia professionalità”.

E prima della partita contro il Lewski Sofia un’altra frase ad effetto: “Ti fazo zugar solo perché te xe alto e ghe xe quel mona de Asparukov”. Ovvero?
“Faccio giocare te solo perché sei alto e c’è quell’idiota del centravanti della Bulgaria. Era l’intercalare triestino, ma lo pronunciò in senso buono”.

Con chi era in ballottaggio?
“Con Belli. Eravamo alla 4ª di campionato e arrivò questa partita di coppa. Sino a mezz’ora dall’inizio nessuno di noi aveva il coraggio di cambiarsi, tant’è che Gianni Rivera disse: “Stasera giochiamo senza portiere”. In effetti con Pierangelo continuavamo a guardarci… Finché Rocco scelse me e restai titolare. Finì 4-2 e passammo il turno”.

Anche a lei dava dei nomignoli.
“Mi chiamava El Longo. E poi Rosenthal: “Sei fragile come una ceramica pregiata”.

Disputò 127 partite, sino alla chiusura nel 1972, con la seconda Coppa Italia, vinta in finale a Roma, contro il Napoli. Si aggiudicò una Coppa delle Coppe all’esordio e la seconda Coppa dei Campioni rossonera, nel 1969.
“Anche grazie al lavoro in mediana di Trapattoni e Lodetti, avevamo superato l’Ajax per 4-1: doppietta di Prati, rigore di Vasovic per gli olandesi, il terzo su ancora di Prati, ispirato da Rivera, mentre Sormani venne lanciato da Hamrin e Lodetti”.

La finale arrivò grazie alle notti magiche di Glasgow e di Manchester, con le sue uscite proverbiali.
“Quarti e semifinali vennero disputati proprio con lo stile anglosassone. Là corrono come matti, calciano da ogni parte, il massimo se il portiere stava bene, essere sempre sotto pressione diventa esaltante. Stessa cosa avvenne nel ’61, a Birmingham, nella finale di Coppa delle Fiere, in effetti tutte le partite più importanti della mia carriera sono state nel Regno Unito”.

Perché indossava la calzamaglia nera?
“Ero un tipo freddoloso, d’inverno aiutava. C’era la sottomaglia ufficiale, le gambe però pativano il freddo”.

Aveva maglioni sgargianti, gialli e verdi.
“L’ispirazione venne dalle partite inglesi. Aggiunsi anche il rosa shocking, fuori casa le lascio immaginare i commenti, anche se all’epoca non si parlava di gay o simili. Avevo 24 anni, ero filiforme e i tifosi avversari cercavano di irretirmi con le offese tipiche delle curve. Avevo rinunciato alle tinte più scure e anonime, il grigio e il nero, perché lessi che i colori più vivaci attiravano i tiri degli attaccanti. Era proprio uno studio inglese, a prospettarlo”.

E così è diventato il ragno nero.
“Gli inglesi mi definirono proprio black spider, come il mitico russo Lev Jascin, fu un onore. A Manchester in campo volava di tutto, persino pezzi di ferro e ghisa. Rosato perse due denti su gomitata dell’inglese Stiles, sanguinava. Io fui colpito alla testa, il dottor Monti si precipitò da me: volevo giocare e rimasi in campo, senza fare scena. Fossi uscito, avremmo vinto 3-0 a tavolino, dunque per qualcuno ero stato poco furbo. Non c’erano sostituzioni, per 5 secondi avevo addirittura perso i sensi”.

Quell’anno arrivò anche la cruenta Intercontinentale, con calci, pugni e schiaffi.
“In particolare a Nestor Combin, francese di classe, che vive ancora a Tolone. La conquistammo alla Bombonera di Buenos Aires, contro l’Estudiantes”.

Con gli argentini giocava Juan Ramon Veròn, padre di Juan Sebastian, poi regista di Sampdoria, Parma, Lazio e Inter.
“Il papà era un medianaccio di un certo peso, aveva una notevole forza fisica. Venivamo dallo scudetto del ’68, fu il top della storia rossanera, sino all’era Berlusconi”.

Cudicini, era nato alla cuspide fra bilancia e scorpione, come il poeta francese Artur Rimbaud.
“Neanche sapevo di questa casualità…”.

Le mancò solo la Nazionale.
“Assaporai unicamente l’Italia B. Prima a chiudermi c’erano Lorenzo Buffon, lontano parente di Gigi, oggi juventino, e Giorgio Ghezzi, interista. Con loro feci qualche apparizione come terzo. Poi arrivarono Enrico Albertosi e Dino Zoff, lì mi affacciai in panchina in Germania Est, per le qualificazioni ai Mondiali del ‘70. Passammo con due gol di Riva, ero fra i 40 azzurrabili per i campionati del mondo in Messico”.

Nel Milan in difesa c’erano Angelo Anquilletti a destra, scomparso un anno fa, il tedesco Schnellinger, Rosato (il faccia d’angelo, morto nel 2010) e il rodigino Saul Malatrasi.
“I centrali erano i piloni di quella retroguardia, ma pure Anquilletti si faceva valere. L’intero reparto si lasciava guidare, del resto erano tutti grandi uomini. Avevamo fiducia reciproca, era un blocco compatto anche fuori. Uno spogliatoio vero, adesso che si parla tanto dell’importanza dello spogliatoio: era l’abilità di Rocco, con il suo modo di fare, davvero bastone e carota”.

È stata la difesa più forte nella storia rossonera?
“Dietro però ai vincitutto di 20 anni fa: Tassotti, Baresi, Costacurta e Maldini, perché il loro modo di giocare era più evoluto. Stavano in linea, noi giocavamo incollati agli attaccanti, con il libero dietro, appunto Malatrasi, e la marcatura a uomo”.

Il record di imbattibilità a San Siro è ancora suo, 1132 minuti senza prendere gol.
“Nel 68-69 ne subii appena 5, in casa. Lo interruppe un autogol di Rosato. In tutto ne incassai 8 in 29 gare, in quella stagione. Saltai una partita per infortunio, comunque resta il primato per i campionati a 16 squadre”.

Per questo è nella top ten dei portieri italiani del ‘900?
“Non ho riscontri di questo tipo, sinceramente”.

Con la sua altezza, come faceva a entrare nell’abitacolo della sua Fiat 500 bianca, targata Trieste, e persino a guidarla?
“Il mio carrozziere aveva spostato indietro i binari del seggiolino. Dietro però non ci poteva stare nessuno, dunque in 4 non si stava…”.

Finì in prima pagina su Sport Illustrato la sua foto in piedi, accanto a quella piccola vettura, con il Pirellone sullo sfondo.
“Era un settimanale, usciva il martedì: parlava di calcio e un po’ di ciclismo”.

A 42 anni cosa fa Carlo, suo figlio minore, ex portiere del Chelsea?
“Allena. Aveva disputato l’ultimo anno al Galaxy, in America. Ebbe un brutto incidente in moto, poi fece il corso da allenatore, a Dublino, nella Coverciano irlandese. È l’assistente del capo del settore giovanile dell’Eire, Noel King, l’ha voluto per affidargli il settore difensivo, compresi i portieri, tant’è che a Vicenza era in panchina con l’under 21”.

Inoltre il Chelsea gli ha proposto di lavorare nel marketing.
“Ha accettato con entusiasmo, si occupa del brand. Va in giro con la squadra, commenta per la Chelsea tv, anche adesso è impegnato in Champions”.

Quando conobbe il presidente Silvio Berlusconi?
“Abitava in via San Gimignano, giusto un piano sopra a Giovanni Lodetti. Si salutavano, Berlusconi era già un grande tifoso del Milan, una volta invitò a cena Lodetti e anche me, con le rispettive mogli, nella trattoria Armando, in via Marghera”.

Era a fine anni ’60. Silvio era già brillante, come oggi a 79 anni?
“Sì. E mi fece subito un’ottima impressione. Non avrei mai immaginato di lavorare con lui. Nel ’71, quando seppe che avevo un’azienda nel settore dell’edilizia, mi chiese se me la sentivo di occuparmi delle pavimentazioni di Milano 2 e di tutte le sue sedi. Mi dava del lei, servivano i servizi di posa in opera, organizzati dalla nostra filiale romana, proprio dal ragionier Giampaoli. Era un impegno da far tremare i polsi, per un neofita com’ero allora”.

Come fece a galvanizzarla?
“Con stima e fiducia, si rivelava già un eccellente motivatore. Rivestì con le mie moquette anche Milanello, per questo gli sarò sempre riconoscente. Naturalmente seppi tra i primi che si interessava all’acquisto del Milan”.

Anche lei resta tifoso rossonero?
“Dal 1967. Mi pagavo gli abbonamenti, sino all’era Farina. Nell’85 arrivò al Milan Berlusconi e allora mi ha concesso le tessere gratuite, sino all’inizio di quest’anno. È  stato un privilegio vivere anche i successi all’estero, ovvero le finali di Coppa. Ci vediamo abbastanza spesso”.

Ora qual è la sua favorita per lo scudetto?
“La Roma, soprattutto se torna l’olandese Strootman e se Castan recupera appieno dopo l’operazione. Il presidente Pallotta mi ha fatto un’ottima impressione, perché dopo mezzo secolo ha voluto festeggiare la coppa delle Fiere, premiando sul campo tutti gli ex che l’avevano vinta. Dall’America, poteva ignorare la storia della società, come succede in Italia. Sono stato persino invitato al derby di domenica, ho ricevuto una bella mail dalla segreteria. Il presidente tiene molto al mondo del calcio del secolo, non a caso ha istituito la gallery of fame. Lo stesso Milan manda gli auguri di Natale e di compleanno, grazie al vicepresidente Adriano Galliani”.

Quale portiere odierno preferisce?
“Mi piace Emiliano Viviano, della Sampdoria. Parzialmente mi rivedo nell’atalantino Sportiello, per il fisico. Marchetti (Lazio) e Perin (Genoa) sono un po’ plateali, preferisco chi semplifica le parate complicate”.

E qual è il numero uno al mondo?
“Il belga Courtois, ex Atletico Madrid, del Chelsea, perché sa anche ragionare, come faceva il mio amico Giuliano Sarti, nell’Inter. Non amo i portieri svolazzanti, preferisco chi comanda da dietro e prevede lo sviluppo dell’azione”.

A 16 anni, Donnarumma resterà titolare, nel Milan?
“Non l’ho mai visto neanche nelle giovanili, me ne hanno parlato come un emergente, fortunatamente queste 3 partite sono andate bene. Meglio di così non poteva fare, Mihajlovic l’hanno ritenuto già maturo per sopportare la pressione di San Siro e dell’Olimpico. Magari fra 5 anni sarà in Nazionale e diventerà uno dei migliori portieri del mondo”.
Perchè Diego Lopez fatica tanto?
“Ha quella tendinopatia al ginocchio, magari aveva resistito con infiltrazioni. Non credo che la sostituzione fosse solo tecnica, sarà stato anche un discorso fisico. Malgrado le critiche, lo considero un buon acquisto del Milan, testimoniato da William Vecchi: “A Madrid, con Ancelotti, per un anno l’avevamo preferito a Casillas, nonostante avessimo contro il pubblico”. Dunque è da Milan, com’era da Real Madrid”.
Chissà come l’ha presa Christian Abbiati, allora…
“Ecco, in questo scavalcamento mostra la consueta professionalità, a 38 anni. Resta una vecchia colonna rossanera, gliel’avranno fatto digerire, è la stranezza di questa situazione. Donnarumma ha iniziato un percorso positivo, la speranza è che il portierino non abbia piccole defaillance, diversamente comunque sarebbero pronti in due”.

Lei va ancora allo stadio?
“Ogni tanto, con mia moglie Serena, 78enne”.
Avete 4 nipoti: Alessandra, 22 anni, e due gemelli di 18.
“Matteo, terzino sinistro nella Pro Sesto, in serie D, adesso si direbbe esterno basso, e Martina, al penultimo anno di liceo, vicino all’ex fiera, in via Nievo. E poi Milla, figlia di Carlo, che ha un anno”.
Suo figlio minore era stato compagno della showgirl di Mediaset Alessia Marcuzzi.
“Il padre Eugenio mi ha fatto gli auguri per gli 80 anni”.

Come ha festeggiato?
“In famiglia, senza nulla di originale. Abbiamo atteso fine mese, che Carlo potesse rientrare da Londra”.

Chi l’ha chiamata, in particolare?
“Tanti, al telefono o per sms. Il primo è stato Romeo Benetti, alle 8, poi Rivera e Lodetti, Kurt Hamrim,  Malatrasi e Sormani, dunque lo zoccolo duro della squadra guidata dal paron Rocco. Era proprio speciale”.

Vanni Zagnoli

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