L’addio a Gianni Minà

(rainews.it)

Vanni Zagnoli

L’addio a Gianni Minà, a 84 anni. E’ stato grande, certo, grande torinista, anche un buon direttore di Tuttosport, però era troppo sdraiato di fronte ai potenti, ai dittatori, e agli sportivi malati come Diego Maradona. Memorabile quando Alberto Caprotti lo attaccò su Avvenire e Aldo Biscardi portò al Processo entrambi. Caprotti non sapeva di vederselo davanti, aveva una trentina d’anni, poco più, un gigante: “Tutto quello che vuoi, disse, ma non lo stai aiutando”. E Minà: “Caro collega, ti auguro di fare un quarto della mia carriera”.

Anche no. E’ stato un rarissimo Caprotti in tv, la miglior espressione di ogni tempo di un libero pensiero, di un enorme giornalista, di una enorme testata, Avvenire.

Facile fare agiografia, far passare per grandi statisti dittatori come Fidel Castro, casualmente tutti di sinistra, come i suoi personaggi del cuore. I dittatori non sono malvagi solo se di destra. Il giornalismo è anche critica, è sferzare i potenti, soprattutto i regimi. Il giornalismo è, va bene, incassare la miglior intervista possibile al personaggio, nel mio piccolo faccio uguale, ma non fare sconti. Non può passare il messaggio che El Diego, El 10es, in quanto Maradona, appunto, può tutto, anche doparsi o almeno insomma fare uso di stupefacenti, illeciti soprattutto per uno sportivo.

Da uno sportivo, da un giornalista, tantopiù grande, mi aspetto il massimo del rigore e dell’esempio. Non sono uno storico degli eccedi nè di altro ma penso che sia da censurare Jorge Videla in Argentina come Fidel Castro e il fratello a Cuba, Pinochet in Cile ma anche l’illibertà della Cina.

A Blitz, invece, era stato un precursore. Su Rai2 ostentava l’amicizia con il cantautore brasiliano Toquinho, con il napoletano Massimo Troisi, non c’era artista che Gianni Minà non avesse incrociato. “Eppure alla Rai lottizzata non mi volevano assumere”, mi confidò al Coni, ai premi Ussi, anni fa, nel canale youtube perduto. Il colore, il costume, quasi il cabaret con certi attori, comici, appunto, come Troisi. E poi quella voglia di grandi personaggi, Robert de Niro e Cassius Clay, Leone e chissà quanti altri. Mohammed Alì, appunto, io preferisco chiamarlo Cassius Clay, detesto i cambi di nome, in tutta la società, detesto l’integralismo religioso. Clay è stato un gigante, fra le 4 corde e fuori, si è battuto per i diritti dei neri, onestamente però tenevo per George Foreman. Quando gli urlavano, in Zaire, “Alì, bouma ye”, cioè Alì uccidilo, non ho visto Clay fermare il match, indignarsi per un coro vergognoso, altro che neri discrimati, anche re Giorgio mica era bianco.

Detesto il politicamente corretto e gli adepti della sinistra, da sempre. Se Reggio Emilia fosse di destra, magari sarei di sinistra, ma non credo.

Minà, torinista, dicevo. Arrivò alla direzione di Tuttosport a metà anni ’90, chiamato dall’editore Amato Mattia, scomparso. Amato era a L’Unità, se ricordo bene era l’ad nella direzione Walter Veltroni, passata alla storia per gli album di figurine, Panini, rieditati con bella intuizione. Si prese, l’editore, due simboli della sinistra, Minà e Beppino Smorto, detto il nano maledetto, da Giancarlo Padovan, che aveva iniziato alla redazione sportiva di Repubblica, dopo essersi rivelato a Il Mattino, di Padova, per poi diventare per 7 anni la prima firma del calcio a Il Corriere della Sera.

Ricordo quando Minà attaccò gratuitamente un mercato del Torino, si prese la coppia di centrale della Reggiana di Carlo Ancelotti, neopromossa in serie A, il lungo Roberto Cevoli, di San Marino, e Angelo Gregucci, uno stopper vecchia maniera, che meritava la nazionale, con la Lazio. Li criticò apertamente, quando però il Torino venne promosso mica fece ammenda.

Di Minà ricordo quando Gianni Melidoni, da capo de Il Messaggero, sport, al Processo del lunedì disse quanto pensava il resto d’Italia: “Sei un lacchè”. Cioè un servile, un ossequioso di ricchi e potenti. L’empatia. E’ la stessa che vedo giorno e notte, fra i potenti, far parlare il personaggio di qualcosa che gli piace per ammorbidirlo e, appunto, introitare il miglior racconto possibile, nel caso mio, video.

Memorabile anche quando durante una finale di tennis Gianni Minà fece due domande ad Adriano Panatta in un cambio di campo. Pensate cosa succederebbe a me se mi avvicinassi, nel volley, nel basket, per non parlare del dio pallone delle esclusive e degli sponsor, delle hostess e dei divieti. 

Minà ha tanti allievi prediletti, spicca Darwin Pastorin, il brasiliano che abita a Torino, venne promosso vicedirettore, a Tuttosport, con la direzione doppia, Minà-Smorto, direttore, anche editoriale, se ricordo bene, e condirettore. Di Smorto ricordo la sorpresa quando me lo feci passare all’interno di Repubblica, perchè poi tornò là, per lui ero un collaboratore fastidioso e presuntuoso, infatti mi utilizzò il meno possibile, limitandomi il più possibile a Reggio, per quello snobismo tipico di Repubblica, che vedo anche in Emilio Marrese, ritornato a Bologna.

Smorto che un giorno irrise in un fondo in penultima pagina Franco Bragagna, il monumento della Rai, per l’atletica e lo sci di fondo, perchè ai mondiali disse che malgascia non è una brutta parola. E’ il termine che identifica l’abitante del Madagascar, Bragagna amava fare esegesi di parole e suoni, di pronunce e inclinazioni. Insomma per Smorto, abituato a Repubblica a bersagliare la Rai, Bragagna era mediocre, sottolineando certe parole, con atteggiamento tipico, ripeto, del politically correct, dell’èlite della sinistra, che io detesto solennemente.

A me Minà piaceva, peraltro, lo conobbi una volta a Bologna, se ricordo bene, memorabile quando fece le pagelle di Tuttosport, su una partita forse del Torino, e le firmò dal direttore, bellissimo, per chi fa esegesi giornalistica.

Non ricordo, peraltro, ripeto, tante provocazioni, le uniche sono state contro la destra nel mondo, così non vale. Un giorno, spero di raccontare la moglie, Loredana, che conobbi a Roma, all’Ussi, ai premi annuali.

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