L’ultimo saluto a Emilde, il mio atto di dolore in parte letto in chiesa: il dialetto e la ruralità, la voglia di chiacchierare. “Me sun na dòna mèdia. Un fiòl lè pòc, du in trop”. L’utopia Milano, l’obbligo di vivere accanto a genitori e nonni, tradito a 23 anni. L’album di famiglia

Vasco a militare, con le trasmittenti, fine anni ’50
Vasco Zagnoli ed Emilde Montecchi: si sposarono nel 69, a Viano
Vasco sempre a militare
Emilde ai tempi di quando era mondina. Poi lavorò in ceramica

Emilde in parrocchia, a Pieve, negli ultimi anni

di Vanni Zagnoli. Il messaggio è stato sintetizzato per questioni di tempi e di voce singhiozzante al funerale di Pieve Modolena, verso le 17 di martedì.

 

Pensavo ai funerali degli sportivi, di Marco Simoncelli, per esempio. Un minuto di rombo di motori e cose simili. Lei cos’avrebbe voluto? Qualcosa di allegro, un brano di liscio, di Felice Tavernelli di Telereggio o di Canale Italia. Il liscio piaceva tanto anche a papà Vasco. Andavamo alle feste dell’unità insieme, forse fino a 16 anni.
E poi scherzava, in fondo lo faccio anch’io. In fondo me l’ha insegnato lei: “Et mia buon ed vèser un po’ disinvolt?”. Il commento di quando mi seguiva in tv. Certo per me era difficile andare a parlare del Parma quando avevo scritto appena un articolo di cronaca. Oppure ero in un tv modenese a scrivere contemporaneamente di una partita di basket. “Te parlè bèin”, era il suo giudizio.
In fondo lei ed io siamo sempre stati lavoratori a cottimo, lei in campagna e poi a casa, incollava le scatole, per pagare i debiti fatti per costruire la casa e la stalla, diventata presto capannone. Io sono sempre stato un cottimista delle notizie. “Insòma, te fat giorneda, via”, diceva. Già, come fossi un muratore. E in fondo un muratore è qua presente, Antonio, con Antonella e il piccolo Nazareno: dal 2003 ad agosto sono stati i suoi angeli custodi, dalla morte di papà Vasco. “Fai finta che siamo io, mia moglie e il figlio che non abbiamo”. Non voleva sentire ragioni, così spesso diventavano demoni. Erano i fantasmi di una mente, come dice Francesco Guccini. Della mente di papà, sua e ogni anno che passa anche mia.
In fondo anche lei faceva le interviste, a chiunque chiedeva del privato, di tutto quello che le venisse in mente. Un interrogatorio. Così sono invadente con tutti. E poi con il whatsapp, adesso, messaggi infiniti. Meno dormo, più parlo e scrivo. Prima le mail. Lei telefonava ai parenti, ne sentiva volentieri tanti.
Peccato non avesse la patente, si sarebbe divertita ad andare a trovarli. Come nonna Elena, che andava ovunque in tram. “A far bèin”. Ad assistere moralmente persone, in realtà consolando se stessa. Io non volevo prendermi altri appuntamenti, ne avevo fin troppi, di lavoro. Allora rifiutavo di accompagnare lei e o il papà.
Ho scoperto ieri da mia cugina Rita, medico, che mamma era la bella della famiglia, mai saputo. “Me sùn na dona mèdia”, diceva. “Sono una donna media”. In medio stat virtus, no? “Nè pòc nè tròp, nè bèla nè bròta”. Nè poco nè troppo, nè bella nè brutta. Era la sua filosofia spicciola.
Ho imparato da lei, da nonno Tino e da nonna Elena e da papà Vasco il dialetto. Da bambino mi vergognavo di certa cultura, di quella spontaneità controproducente in ambienti di lavoro elitari, soprattutto facendo il collaboratore.
Non ho mai avuto stile, mai l’avrò. Ma in fondo è meglio così. Non siamo mai capaci di stare zitti, lei come me. A me non è mai andato bene niente di lei, neppure la cucina. “Mo chi sà se magnaràn i tò amig, endràn seimper al ristorànt”. A me sono sempre piaciuti i confronti, ero cresciuto fra gli eccessi di risparmio.
E poi c’era quel suo desiderio, che era anche del papà, che vivessi con Silvia al piano superiore della loro casa, loro sarebbero passati giù. Non avevo scelta, a 23 anni me ne andai. Non me l’hanno mai perdonato.
Non sono stato un bravo figlio, ma avevo troppo da fare. Sarei voluto andare a Milano. “Milano è tanto grande da impazzire”, cantava ancora Guccini.
Papà Vasco mi chiedeva di muovermi, per i giornali e le radio tra Parma, Mantova e Bologna. Su Piacenza aveva dei dubbi: “E’ di qua o di là dal Po? Perchè non vorrei che annegassi, con la macchina, sul ponte”. Beh, una volta è crollato davvero.
A papà e anche a me arriva l’ansia dell’ansia, il panico. Lei era diversa, aggrediva le persone con una cascata di parole. E spesso lo faccio anch’io. Con che diritto, poi? Come se qualcuno avesse degli obblighi ad ascoltarmi o a leggermi.
E negli ultimi 3 anni che avrei avuto più tempo per lei era mamma che, purtroppo, non era più in grado di apprezzare i miei discorsi. Dopo 20 anni di telefonate, quasi ogni sera. E allora avevo diridato anche le visite, per non soffrire troppo.
Con me lei era troppo dura e io stesso talvolta lo sono con altri. Troppa ansia, pressione, troppo tutto. Come se avessero colpa gli altri della mia precarietà lavorativa. Ciascuno ha le proprie malattie. Io di giornalismo mi sono ammalato da bambino, ho iniziato a 19 anni, non credo che guarirò. Ho sottratto tempo a tutti, a partire da lei e da mio papà, a mia moglie.
Rivaluto i miei genitori nel tempo, l’ho già fatto, lo faccio con molte persone. Peccato che a loro non serva più a nulla. Ho sbagliato per un terzo di secolo, non ho mai voluto cambiare. Anche con i colleghi.
Sbaglio un’infinità di volte. E’ la vita.
Mi vergogno a piangere in pubblico. Lo faccio da solo, per nulla. Ansia, tensione, ipertensione. Induttore del sonno. Depressione. Come aveva mio padre. I geni non si cambiano. Somatizzazioni fra stomaco e intestino.
Grazie per quanto avete fatto per me, forse non ve l’ho mai detto. Sei stati troppo generosi, non l’ho capito. Ma ero vicino ugualmente, Canalina è a 5 chilometri da Pieve, Cella e Roncocesi. Perchè noi abitavamo lì. “Alla Pieve sono forti”, cantava Auro Franzoni. Forte era di sicuro lei, di Viano. Testarda come molti montanari. Anche se di collina. O forse mascherava così le nostra fragilità.

Le dedico Madama Dorè, cantata di Ivano Fossati e da Mina. Che a casa mia veniva detta la Minassa

 

 

 

 

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