Assocalciatori.it. Il mezzo secolo di Marco Osio, dal debutto in A nel Torino (“Il mio mito era Zaccarelli, altro anconitano”) alla difficile carriera di allenatore: “Ho imparato da Zeman e Mondonico, ma soprattutto da Cadregari: sempre con entusiasmo, anche alla Pergolese, nella serie D marchigiana”

Marco Osio, ex centrocampista del Parma, con la maglia dei Crociati
Marco Osio, ex centrocampista del Parma, con la maglia dei Crociati nella stagione 1991-1992

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La versione integrale dell’intervista a Marco Osio, pubblicata sul sito dell’assocalciatori.

Vanni Zagnoli

Oggi, mercoledì 13 gennaio, compie 50 anni Marco Osio, l’ex “sindaco” di Parma, uno dei giocatori più amati della tifoseria di riferimento, tra gli artefici del boom crociato, nei primi anni ’90.

Osio, da bambino era tifoso della Juve, poi passò al Toro e divenne sostenitore granata, con l’esordio in A nel febbraio dell’84.

Allenatore era Eugenio Bersellini – ricorda -, c’erano i campioni del mondo Franco Selvaggi e Beppe Dossena e l’attaccante austriaco Walter Schachner. E poi Renato Copparoni in porta. Non avevo neanche fatto un allenamento, con la prima squadra, fu una sorpresa enorme. Vivevamo tutti in un collegio-pensione, arrivò una telefonata la domenica mattina: non ero stato convocato gol il ritiro, avevamo un unico telefono con cui rispondere, mi svegliò un compagno, avvisandomi della chiamata del mister. C’erano state defezioni, ero impreparato anche solo psicologicamente, eppure debuttai, a 20’ dalla fine”.

A chi si ispirava, all’epoca?

Il mito era Renato Zaccarelli, anconetano come me. Speravo di intraprendere la sua carriera, per portare il nome della mia città in serie A e l’ho fatto. Erano molto professionali, allora, c’era persino un pizzico di nonnismo, ovvero la massima disciplina, in particolare nei confronti dei giovani che si recavano a fare anche solo gli allenamenti. Il rigore imponeva al ragazzino di restare in silenzio, si subiva la personalità dei campioni e anche questo faceva crescere”.

Che tipo era l’argentino Patricio Hernandez, anni fa persino editorialista di Tuttosport…

Qualitativamente era eccelso, un sinistro naturale, con capacità anche di realizzazione. Era veramente molto forte, un giocatore di livello, 30 anni fa. Stava però parecchio sulle sue, era riservato, fuori dal campo”.

Nell’86-87 il passaggio all’Empoli in A, con il primo gol contro l’Inter.

In squadra avevamo Amedeo Carboni, poi a lungo al Valencia e anche collaboratore di Rafa Benitez, all’Inter e al Napoli, e il giovane Eusebio Di Francesco, oggi fra i tecnici più importanti d’Italia, con il Sassuolo. E c’era anche Walter Mazzarri, che per la verità giocava poco. Senza dimenticare Ciccio Baiano, già vice di Corini, al Chievo”.

Come arrivò in Toscana?

In prestito dal Torino, la squadra era in serie B. A un pranzo ci ritrovammo in A, grazie al ripescaggio, per le vicende del calcioscommesse, con mancata promozione del Vicenza. Fu un’esclation di emozioni, in una società che lanciava giovani, come Massimo Brambati. La prima partita si disputò al Franchi di Firenze, perchè lo stadio Castellani ancora non era a norma: realizzai il primo gol in A nella storia dell’Empoli e anche il mio primo, all’Inter, con annessa prima vittoria. Affrontammo il Milan a Pistoia, in campo neutro, e ne prendemmo 3. All’inizio eravamo pendolari, la domenica, ma il ritorno al Castellani portò alla salvezza”.

Quindi il prestito in serie B al Parma, inizialmente con Zeman e poi con Nevio Scala, con il gol della promozione alla Reggiana, nel ’90.

Furono 6 anni complessivi, strepitosi, di cui tre anni in serie B. La squadra era molto giovane, tanti andavano a fare esperienza, c’erano grosse aspettative. Zeman era fra i tecnici più spregiudicati del calcio italiano, mi divertivo molto in campo, non altrettanto in allenamento. La preparazione fisica peraltro era eccessiva, avevamo spianato alcuni gradoni, a forza di saltare sulle tribune, e anche le salite. E poi i mille metri erano pesanti, si partiva per farli 6 volte, ma arrivavamo anche a 12 o a 15. E allora ogni 2-3 serie mi fermavo e avvicinavo il mister: “Ho male al tendine, alla caviglia, al ginocchio”. E lui rispondeva con la sua flemma: “In che gruppo sei?”. Terzo o quarto, non ero mai tra i primi. “E’ partito il cronometro, sei già in ritardo”. Faticavo il doppio, quindi, ero un po’ pelandrone, però facevo tutto”.

Il boemo fu esonerato dopo due mesi, arrivò il compianto Giampietro Vitali.

Con il quale ci salvammo senza grossi patemi, idem l’anno successivo. Finchè arrivò Nevio Scala con il suo 3-5-2 innovativo, per l’epoca. Portò una ventata di novità, ci trovammo al posto giusto nel momento giusto, creando una squadra modello, con cui arrivammo al top d’Europa. Nella primavera del ’90, con la morte del presidente Ernesto Ceresini, si verificò un grosso calo, non riuscivamo più a essere la formazione sbarazzina del girone d’andata. Entrò però la Parmalat e agevolò le nostre imprese”.

Al debutto in A, i gialloblù persero in casa contro la Juve di Maifredi, gol di Napoli a metà primo tempo, raddoppio di Baggio su rigore; chiuse un rigore di Melli quasi allo scadere.

Entusiasmo comunque alle stelle, per noi, che difatti all’Olimpico con la Lazio portammo a casa un brillante 0-0. E alla terza l’impresa, la prima, vera nella storia crociata in serie A”.

Minuto 64, cross da destra del mancino De Marco (ex Reggina, poi gravemente infortunato e allora soppiantato da Antonio Benarrivo) e Marco Osio in tuffo battè Giovanni Galli.

Una grande soddisfazione. L’Italia scoprì la favola che sappiamo, fu in quella domenica di settembre, di 26 anni fa che sbocciò l’isola felice”.

Il Paese usciva dal terzo posto al mondiale di Italia ‘90, la classifica di quella stagione fu stupefacente. Lo scudetto andò alla Sampdoria con 51 punti in 34 giornate (c’erano 18 squadre), Inter e Milan chiusero a 46, il Genoa fu quarto a 40, mentre il Parma chiuse a 38, con il Torino.

Naturalmente la vittoria era premiata con 2 punti e non 3. Fu il miglior anno per il calcio ligure. Il Parma si qualificò per la coppa Uefa e fu il vero miracolo di Scala, con Sandro Melli, team manager sino alla scorsa stagione, settimo fra i cannonieri con 13 reti”.

Presidente era Giorgio Pedraneschi, dg Giambattista Pastorello, in porta c’era Taffarel, con vice Marco Ferrari. C’erano anche molti comprimari: il regista Tarcisio Catanese (20 presenze), Stefano Cuoghi (29), Marco De Marco (8), il terzino destro Cornelio Donati (25). Gambaro fu sempre presente, Brolin (7 reti) e Grun, Minotti e Apolloni quasi.

E poi ci fu spazio anche per l’ex milanista Graziano Mannari, per il mediano Aldo Monza, per il 19enne Stefano Rossini e per l’ex Licata Sorce”.

Naturalmente il perno di tutto era Daniele Zoratto, oggi vice ct dell’Italia under 16. Fu quel giorno che il calcio italiano si innamorò di Marco Osio, visibile non solo per i lunghi capelli e la grande potenza.

Fu una grande emozione, la prima grande che cadde per mano del Parma in serie A. Indimenticabile. Io arrivai in prestito dal Torino, fui talmente amato che mi ribattezzarono sindaco”.

E perchè?

Il Tardini era insufficiente per l’entusiasmo, si parlava addirittura di uno stadio a metà con Reggio Emilia, il primo cittadino dell’epoca, Mara Colla, non risolveva la situazione e qualcuno dalla curva ebbe quella pensata di esporre lo striscione Osio sindaco. Da allora sono ricordato così, ma in tante città d’Italia”.

Al punto che aveva fatto un pensierino persino alla carriera politica.

Con la caduta della giunta Vignali, ero stato contattato per un posto da assessore allo sport, ho preferito declinare l’invito perchè non vorrei essere etichettato come parte di uno schieramento. Neanche vado a votare, spesso, e in Italia siamo in tanti a non scegliere”.

Il primo trofeo fu la coppa Italia del ’92.

Ai danni della Juve dei pluricampioni, dal potenziale esagerato. Venivamo dalla qualificazione Uefa, della stagione precedente. All’andata perdemmo 1-0 a Torino, pur disputando una grandissima gara, risolse Roberto Baggio. Mi divorai un gol clamoroso nel finale, al rientro a Parma promisi ai compagni di fargli vincere la coppa, andò veramente così. Il ritorno fu straordinario, con il vantaggio di Sandro Melli e il mio raddoppio”.

Nel ’92-’93 arrivò la coppa delle Coppe, contro i belgi dell’Anversa, a Wembley.

Ormai non eravamo più una sorpresa, si era veramente lanciati verso il grande calcio. Furono giornate magnifiche e a Londra le vissi con grande spensieratezza, giravo per la città con la macchina fotografica, a immortalare ogni angolo della capitale inglese. La mattina della finale, a mezzogiorno c’era la convocazione prima del pranzo: mi svegliai alle 8, andai in centro per le ultime ore da turista, appassionato di musica inglese, alla Tower Records. Cercavo le bootleg, registrazioni non regolari ma in vendita”.

Era un grande fan della New Wave inglese: Cure, Echo&The Bunnyman…

Comprai 5-6 cd, per arrivare là impiegai 10-15’, ma per il ritorno c’era traffico. Temevo la ramanzina del mister Nevio Scala e allora chiesi al taxista di dribblare le auto. Arrivai per ultimo, naturalmente, in sala, ma evitai la solita multa”.

Nel ’93 passò al Torino.

Al posto di Vincenzino Scifo. Ero nel mirino anche di Juve e Milan e persino del Monaco, allenato da Arsene Wenger, dal ’96 poi sulla panchina dell’Arsenal. Il principe Alberto faceva parte dell’organigramma e allora optò proprio per Scifo, belga di origine siciliana”.

Marco Osio tornava alla casa madre, eppure si infortunò più volte e così disputò appena 27 partite in 2 stagioni.

Rimanevo nell’ambito europeo, perchè all’epoca il Toro raggiunse i quarti di coppa delle Coppe. Ebbi infortuni molto gravi, che mi ostacolarono, operazioni alla tibia, al perone e alla caviglia, ero sempre dentro e fuori dagli ospedali”.

Allora emigrò nel Palmeiras, fu il primo italiano in Brasile, come poi Francesca Piccinini nel volley.

Trovai Cafu e Rivaldo, poi campioni del mondo e milanisti. Ricordo una delegazione del Parma arrivata per acquistarli, ma Cafu optò per la Spagna, andò al Real Saragozza. Fu Rivaldo il più vicino alla maglia gialloblù”.

All’epoca vigeva ancora il parametro, se ne liberò per andarsene il Sudamerica.

Tutti sceglievano l’Inghilterra, la Spagna o la Francia, a me il Brasile sembrava il massimo. Feci un anno magnifico, vincemmo il campionato paulista con uno scarto esagerato, conobbi una nuova lingua, usi e costumi locali. Mi aiutò il centrocampista Amaral, poi al Parma”.

Come la accolsero?

Al mio arrivo organizzarono un bel churrasco, si andava tutti a mangiare carne, era il loro benvenuto allo straniero: mi chiamavano “el nino”, dicevano “vamos”. Fu molto carino e anche rituale. Si giocava praticamente un giorno sì e uno no. Ogni tanto torno laggiù. Sono innamorato di Bahia, che è quasi un pezzo d’Africa”.

Rientrò in Italia ma in serie C1, al Saronno.

Trovai difficoltà a ricollocarmi, perchè chi andava all’estero era considerato a fine carriera, eppure io avevo appena 30 anni. Nessuno conosceva le mie condizioni, peraltro stavo bene. Ci fu il contatto con il presidente Enrico Preziosi, poi al Como e da un decennio al Genoa. Ritrovai il parmense Eugenio Bersellini dt e in panchina Mario Beretta, oggi responsabile del settore giovanile del Cagliari. Arrivammo quinti, perdendo la semifinale playoff con il Carpi, adesso in serie A. Fu un campionato strepitoso”.

Peccato che ora il Saronno sia finito in Eccellenza.

E’ fra le tante piazze che non riescono più a mantenere la categoria professionistica, perchè l’impegno economico è insopportabile. Sono sempre pezzetti di cuore che si lasciano”.

Poi la parentesi con altri biancazzurri, al Faenza di Giancarlo Minardi, con il miglior piazzamento anche nella storia di quella società, in C2. E i suoi 8 gol, il record personale di reti.

Era anche proprietario della scuderia di Formula uno. Vinse il campionato di serie D, con me ci salvammo alla penultima giornata, in C2”.

Chiuse la carriera con i Crociati Parma, da allenatore iniziò nel Brescello, come vice del cremasco Adriano Cadregari.

Che mi ha lasciato qualcosa in più di tutti. Mi volle come collaboratore, fu lui a iscrivermi al corso da tecnico, voleva che facessi la carriera insieme a lui. Ci dividemmo presto, però mi ha lasciato una bella eredità”.

A chi altri si ispira?

Amo il 4-3-3 di Zeman. Di certo ho imparato anche da Scala e da Emiliano Mondonico”.

E’ stato persino nella serie D marchigiana, alla Pergolese, nel 2006.

Ma sempre con grande entusiasmo, anche in quella piccola società, nell’entroterra di Fano. A Pergola si producono ottime visciole. Ho guidato anche l’Aosta, in D, ho sempre messo la faccia in tutte le cose che faccio. Anche in Lega Pro, l’ultima esperienza è stata al Rimini, devi sempre dimostrare, perchè neanche la bravura paga”.

Al Bellaria ha allenato un talento che si è smarrito presto, Marco Bernacci, ora in serie D, al Ribelle, in provincia di Ravenna.

Ha avuto problemi caratteriali, poteva sicuramente fare una carriera migliore, però mi ha dato una grandissima mano per salvare i romagnoli, a 4 domeniche dalla fine, un ottimo risultato. Peccato che si sia perso un po’ per strada”.

In fondo anche lei era discusso, per la barba e quella chioma lunga, fintamente trasandata.

Non sono mai stato attento al look, era frutto del caso. Non ho creato il personaggio ad hoc, nasce tutto dal piacere di avere i capelli lunghi, quando nei primi anni ’90 facevano tagliare anche la barba incolta. Me ne sono sempre sbattuto, ero me stesso”.

E’ da allenatore che ha messo su chili?

Già da calciatore faticavo. Quante multe, fra me e Sandro Melli, con Nevio Scala in panchina. Eravamo sempre sulla bilancia… Ora mi consolo guardandomi allo specchio, mi permetto qualche piatto di pasta. Sono comunque più in forma dello svedese Tomas Brolin, campione di Texax hold’em ma in sovrappeso. Io non ho mai oltrepassato i 99 chili”.

Adesso dove vive?

Vicino allo stadio Tardini, dalle parte di via Sidoli”.

Era calciatore anche suo fratello Edoardo, classe 1961?

Giocò nell’Anconitana, era in effetti un gran centrocampista, dicevano fosse più forte di me, ma accade spesso che chi ha magari il potenziale più forte a livello giovanile poi non faccia tutta la strada che potrebbe. Adesso gestisce un hotel sulla riviera del Conero”.

Ora c’è Edoardo, sulle orme di papà Marco?

Sino alla scorsa stagione. Era al Fiorenzuola, in serie D, ma con la squadra juniores. Ha smesso in estate, i 19 anni sono un’età balorda, in effetti: è un centrocampista, anche bravo, spero che riprenda presto, almeno con gli amici, perchè in Promozione o Prima categoria si può divertire. Nel Mantova giovanile aveva fatto benino, non ho insistito perchè proseguisse. E’ un centrocampista lineare, non ha la mia genialità però è un peccato che abbia lasciato”.

Come festeggia il mezzo secolo di vita?

Con pochi amici, a cena, niente ex compagni”.

C’è anche il cantante Biagio Antonacci?

Non lo sento da un po’, per la verità. Fra noi resta un legame da fratelli, era nato qualcosa di speciale, una piacevole sorpresa. Quando ero all’Empoli, fece un pezzo in un concerto di Lucio Dalla e da lì come amici non ci siamo più lasciati. Lo portai anche in ritiro, a Faenza. E’ molto appassionato di calcio, fatica a giocare ma si divertiva. Prendeva qualche lezione da noi e anche così segnò molto, nella nazionale cantanti. Facevamo duetti in pizzeria, anche con l’allenatore dell’epoca, Ivano Gavella, scomparso a 47 anni”.

Che consigli dava, a Biagio?

Lo tranquillizzavo: “Quando hai la palla tu, l’avversario non l’ha. Sei tu con il coltello dalla parte del manico”. “Cosa devo fare, allora?”, mi chiedeva. “Inventa, come se fosse una canzone. Ridevamo davvero molto. Si sente punta, è un cavallo pazzo, gli piace segnare, del resto il gol è l’essenza del calcio”.

Per lei cos’è?

E’ sempre stato un gioco e un divertimento, ci sono anche cose molto più importanti. Mi piace essere schietto, a volte occorre saper tacere, senza andare mai allo scontro con i presidenti. A me piace essere sempre chiaro, da allenatore magari ti scontri, anche con i dirigenti, e questo dà fastidio, però mi tengo il mio carattere. La prestazione peraltro dev’essere massimale, occorre sempre uscire a testa alta”.

La palla deve correre, perchè non suda”. La pensa come i brasiliani?

Lo dicono in tanti. Il calcio è cambiato molto, i preparatori l’hanno “rovinato”. Adesso i calciatori sono molto più atleti, curano il corpo e la dieta. E’ cambiata la velocità, la palla è rimasta la stessa. Anzi, adesso è leggermente più leggera e inguaia un po’ i portieri. L’obiettivo è segnare, se fai correre bene la palla, trovi le soluzioni migliori”.

Nel calcio mondiale chi le somiglia?

Nessuno, sono unico (sorride). Non è facile trovare un centrocampista come me, ero un po’ naif, senza ruolo. Gli equilibri del Parma di Scala erano talmente perfetti che mi permettevano di svariare, partendo dalla destra. Dicono che sia stato il primo finto nueve, obiettivamente ero indisciplinato, la scheggia impazzita: mandavo in difficoltà gli avversari, spesso però anche i compagni, che pure mi coprivano, in particolare il belga Georges Grun”.

Qual è stato il suo gol più bello?

In Catanzaro-Parma, su angolo di Pizzi, nell’anno della promozione, 1990. E poi in semirovesciata, contro la Roma, in serie A. Il più importante fu il 2-0 alla Juve, nel ’92, perchè ci offrì la certezza della coppa Italia”.

Fa ancora pazzie, tipo quelle con Faustino Asprilla?

Mi sono calmato molto, sto invecchiando. Vediamo se a 50 anni torno bambino, almeno per un po’. Mi sono divertito molto, via. Con Tino vissi un periodo fantastico, ne ero come il fratello maggiore, cercai di renderlo partecipe di questa vita”.

L’ultima esperienza è stata a Rimini, doppia.

Adesso sono a spasso, si fa sempre più fatica, perchè a parte la serie A e la B subentrano altri interessi e non c’è programmazione. La meritocrazia incide poco: ho vinto un campionato, mi sono salvato con squadre non all’altezza, sono retrocesso e ho subito esoneri, con tanti. Persino Mourinho viene licenziato… Capita a tutti, insomma. Però ho sempre voglia di allenare”.

A cura di Alessandro Mazzarino

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