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Un altro lutto, fra i calciatori, in questo terribile 2020. Mario Maraschi si è spento a 81 anni, si era stabilito a fine carriera nel Vicentino, ad Arcugnano, vinse il secondo scudetto con la Fiorentina nel 1968-69. Era attaccante, anche di Milan e Lazio, di Bologna e Sampdoria. Per due volte ha indossato la maglia del Lanerossi Vicenza, con 116 presenze e 32 reti nei bienni dal 1965 al 1967 e tra il 1970 e il 1972.
Fin qui la notizia. Questo invece è il ricordo di Andrea Schianchi, su “La Gazzetta dello Sport”.
“Riuscì a guadagnarsi la stima persino di Indro Montanelli, tifoso esigente e competente. L’11 maggio 1969 il giornalista si trovava a Parigi per seguire le elezioni presidenziali francesi, ma si prese un’ora e mezzo di libertà e ascoltò la radiocronaca di Juventus-Fiorentina, partita decisiva per lo scudetto della Viola. Gol di Chiarugi, raddoppio di Maraschi: Montanelli saltò dalla poltrona e, dimenticando per un attimo i grandi temi della politica internazionale, buttò giù un pezzo sul titolo conquistato dalla sua amata Fiorentina, lo spedì al Corriere della Sera e poi telef¬nò a Gino Palumbo, allora capo della redazione sportiva. «Quel Maraschi è davvero un fenomeno!» – disse – «Quanti gol ha segnato quest’anno? Quattordici, mi pare. Senza di lui non ce l’avremmo mai fatta».
Per l’attaccante, originario di Lodi, Montanelli nutriva una vera e propria passione e molto si arrabbiò quando lasciò la Viola. Ieri Mario Maraschi, a 81 anni, ha piegato tutte le maglie indossate in carriera (non poche), le ha sistemate nell’armadio, ha salutato parenti e amici, si è coricato e ha detto basta. Attraversa¬do lo spazio sconosciuto che porta da un universo all’altro, avrà pensato alle sue avventure, agli inizi durante i quali gli capitò di fare l’altalena tra A e B, al periodo trascorso con il Lanerossi Vicenza, a quello con la Fiorentina culminato con lo scudetto e all’epoca della Sampdoria. Una data gli sarà tornata in mente: 17 marzo 1974, derby della Lanterna, al 90’ con la Sampdoria sotto di un gol, rovesciata e pallo¬ne all’incrocio. Emozioni infinite. Che ora riaffiorano nel momento dell’addio”.
Maraschi, dunque, era una punta brevilinea, uno e 72 per 74 chili, brava sottoporta. Iniziò nel Fanfulla, la squadra bianconera di Lodi, con i primi 8 gol in due stagioni. Altrettanti nella Pro Vercelli, poi due al Milan, nel ’60-’61, con l’esordio in Serie A. Arrivò alla Lazio nel ’61, vi restò per tre stagioni e fu il capocannoniere della squadra risalita in A. Poi un campionato al Bologna scudettato, di fatto fu riserva di Ezio Pascutti. Quindi Vicenza, con un sesto posto, accanto a Luis Vinicio, capocannoniere. E poi il triennio viola con 31 reti in 79 gare, partendo da un quarto posto. Pagò l’esplosione di Luciano Chiarugi e allora tornò a Vicenza, per due salvezze in Serie A.
A Cagliari appena 3 reti in 13 gare, nella stagione in cui ebbe meno spazio. Poi il triennio alla Sampdoria, l’anno a Trento, in Serie D, e la chiusura al Legnago, in provincia di Verona. Lasciò a 39 anni, tanti per l’epoca, soprattutto per un attaccante. Da allenatore partì proprio dal Legnago, ebbe una parentesi in Svizzera, al Chiasso.
Toccò l’apice nella Fiorentina, dunque, in uno degli ultimi scudetti a sorpresa del calcio italiano, nella squadra costruita dal presidente Nello Baglini e allenata da Bruno Pesaola, il Petisso. Quell’anno perse solo alla 5ª giornata, in casa contro il Bologna (1-3).
Era stato Beppe Chiappella, due anni prima, a provare centravanti Maraschi, a inizio carriera era stato ala. A settembre debuttò in Coppa dei Campioni, contro i norvegesi dell’Oster, e segnò un gol.
Ultimo di sette figli, era versatile e non si lamentava dei falli, che in quel calcio erano frequenti. Fu lui a spezzare la carriera di Giovanni Vavassori, stopper del Napoli di Vinicio nei primi anni ’70 e poi allenatore apprezzato, all’Atalanta, con un intervento naturalmente involontario.
Alla Sampdoria, durante un’amichevole a Recco, diede un pugno a un tifoso, dritto in faccia perché gli aveva dato del disonesto. Era appassionato di golf, dagli anni ’70, quando pochi lo praticavano. Amava l’ippica, era stato anche un buon guidatore.
Maraschi fu un mito in tante piazze, dunque, anche a Genova, come raccontava a “La Repubblica”, Il Lavoro, a Luigi Pastore, oggi caporedattore dell’inserto ligure.
Era il 2007 e Maraschi si raccontava così.
“Nell’estate del 1973 il Cagliari decise di vendermi. L’anno prima dovevo andare alla Juventus e invece finii sull’isola, dove non mi trovai affatto bene. D’altra parte, all’epoca eravamo “schiavi” delle società, altro che svincolo, parametro e legge Bosman. Andavi dove ti mandavano. E senza discutere. Capitò l’occasione della Sampdoria, dove conobbi Glauco Lolli Ghetti, il presidente, armatore e persona squisita. Ricordo che giocai anche a golf nel suo club a La Margara nell’alessandrino, dove andavamo in ritiro. Ma i problemi li avevo non con lui, ma nello spogliatoio, dove c’era un gruppo di senatori che influenzava pesantemente il povero Guido Vincenzi, allenatore ancora giovane e inesperto”.
Maraschi, nonostante la concorrenza nel reparto avanzato fosse assai marginale, giocava poco. “Ma un giorno vennero il vicepresidente Roberto Montefiori e Paolo Mantovani, che all’epoca si affacciava nella società. Avevamo giocato un’amichevole con lo Spezia e avevamo vinto 5-1 con quattro gol miei. Mi dissero: «Mario, uno come te deve giocare e domenica a San Siro giocherai». Con l’Inter rimasi ancora in panchina, ma la domenica dopo tornai titolare contro la Lazio, che era prima in classifica e che avrebbe vinto lo scudetto”.
Una partita impossibile, quel testacoda, e invece… “E invece vincemmo 1-0 con gol decisivo, segnato da me. Pensare che il sabato pomeriggio in ritiro a Rapallo, passò davanti al nostro albergo il pullman della Lazio e il presidente Lenzini, che era stato il mio presidente anni prima mi abbraccio, dicendomi: «Ti voglio bene come un figlio, e sono contento che giochi, ma domani non c’è storia. Siamo troppo più forti». Da quel giorno Maraschi non uscì più di squadra. Il suo mestiere era fondamentale, per tentare di tenere a galla una squadra, per la quale i tre punti di penalizzazione parevano un fardello insopportabile per evitare la seconda retrocessione in B pochi anni dopo quella del ’66: “C’erano giocatori validi come Marcello Lippi, ma molti ragazzi erano ancora troppo inesperti. Penso, ad esempio, a Vincenzo Chiarenza al quale ho fatto da chioccia e che ho rivisto qualche giorno fa su un campo di calcio, alla guida della Primavera della Juventus”.
Quel derby, quel 17 marzo 1974, non era solo un derby. Era una questione di sopravvivenza: “Chi perdeva, rischiava di finire all’inferno oltreché di fare una vita impossibile a causa degli sfottò dei cugini. All’epoca, noi della Sampdoria eravamo in netta minoranza. Il Genoa aveva molta più storia, poi nel passato recente c’è stato un certo riequilibrio, grazie a quel grande presidente che è stato Paolo Mantovani, che ha saputo con i successi allargare la tifoseria. Persino mio figlio, che è nato a Genova, è sampdoriano. Quando si giocava il derby, Marassi era per tre quarti rossoblù e per un quarto popolato di bandiere blucerchiate. Ma questo invece di deprimerci, moltiplicava i nostri sforzi. Quella partita non dovevamo perderla, tanto più che all’andata avevamo già vinto, un 2-0 senza discussioni”.
Ma quel 17 marzo, le cose per la Sampdoria si mettono male. Il Genoa, che pure ha i suoi problemi, e non pochi, approfitta di un’uscita a vuoto del portiere blucerchiato Massimo Cacciatori. Sotto la Nord segna Derlin, un centrocampista, e per i blucerchiati si fa notte. Mancano solo dieci minuti alla fine. La vendetta sembra consumata, nonostante il moto perpetuo di un certo Enrico Nicolini (poi sarà soprannominato il Netzer di Quezzi) inserito alla fine del primo tempo al posto di uno spento Sauro Petrini. “Mancavano pochi secondi alla fine, anzi forse era già finita. Chissà, all’epoca non esisteva il tempo di recupero, decideva l’arbitro se far proseguire la partita e di quanto dopo il 90′ in assoluta discrezionalità. Vedevo la tristezza sui volti dei nostri tifosi in gradinata Sud. Quelli del Genoa avevano un trasporto particolare, speravano di poter rinverdire i fasti di un tempo, e invece anche per loro erano anni di vacche magre. Vincere quel derby sarebbe stato un parziale riscatto”.
È l’ultimo, disperato, assalto della Sampdoria. “L’area del Genoa è zeppa di giocatori, probabilmente erano tutti lì. Prini sulla fascia fa partire un cross, io prima penso che dovrei tentare il colpo di testa, poi capisco che non ci arrivo ma che non ho neanche il tempo per girarmi. D’istinto, mi viene da agganciare il pallone abbassandomi con la schiena, sento il pallone sul collo del piede e da quel momento capisco che potrebbe venir fuori qualcosa di eccezionale”. È un attimo. il pallone finisce nell’angolino dietro Spalazzi, Maraschi viene sommerso dall’abbraccio dei compagni e scoppia in lacrime. La partita finisce qui, 1-1, non c’è neppure il tempo per riprendere. “I genoani erano furibondi, uscendo sentivo urla di ogni tipo, insulti. Comprensibile da parte loro. Per me era una gioia indescrivibile, soprattutto vedendo i volti dei nostri tifosi, che sembravano rivivere”.
Un pareggio che per i blucerchiati è come una vittoria anche se la classifica dice che a nove giornate dalla fine la Sampdoria resta all’ultimo posto con 12 punti, a cinque dal Vicenza quart’ ultimo. “Il giorno dopo i sampdoriani vanno nei bar e invitano a bere gli amici genoani: «Vieni» – gli dicono – «ti offro un Maraschino»”, ridacchia Maraschi.
Ma la storia non finisce qui. I blucerchiati termineranno la stagione al penultimo posto, con un sorpasso apparentemente inutile ai danni dei cugini del Genoa. Retrocedono insieme. Anzi no, perché l’estate regala un colpo di scena. Il Foggia viene retrocesso a tavolino per aver regalato all’arbitro, prima della partita contro il Milan, tre orologi di valore. Stessa sorte tocca al Verona, il cui presidente Saverio Garonzi, prima dell’incontro con il Napoli, aveva promesso al centravanti partenopeo Sergio Clerici un incarico alla Fiat. Illecito sportivo, e così la Sampdoria viene ripescata, con tanto di festeggiamenti in piazza dei suoi tifosi in un pomeriggio di mezza estate. “Quel gol, che sembrava solo un salvavita contro gli sfottò, ci evitò anche la B”.
La pagina di 13 anni fa evidenzia come Maraschi abbia allenato i pulcini del Vicenza. “Il calcio mi è rimasto dentro anche se smessa la carriera mi ero dato a tutt’altro mestiere. E quando posso gioco ancora per beneficenza”.
Adesso ha raggiunto in cielo Ernesto Galli, l’ex portiere del Real Vicenza, e i tanti viola scomparsi nella rosa dello scudetto di 51 anni fa: i difensori Ugo Ferrante ed Eraldo Mancin, il centrocampista Giovan Battista Pirovano e gli attaccanti Giancarlo Danova e Giorgio Mariani.
Vanni Zagnoli
Da “Assocalciatori.it”