Assocalciatori.it. Roberto Boninsegna: “Il 7-1 a Moenchengladbach, del Borussia, sull’Inter: la lattina e le accuse di Heychnes. Il ricorso di Peppino Prisco”. “Il Mantova e la nazionale di serie C. Adalberto Scemma e Gianni Mura”

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C’è Inter-Borussia, non Dortmund ma Moenchengladbach e allora il pensiero va a una tripla sfida storica, del 1971, nostro anno di nascita. Ricordata a Sky da Paolo Condò, il giorno del sorteggio, con messaggio di Paolo Viganò, ex Tuttosport, ex Inter, che parlò del grande successo dell’avvocato Peppino Prisco, una vita da presidente nerazzurro.
È una storia nota, dal fascino eterno, e prima raccontare il nostro Roberto Boninsegna copiamo e incolliamo il racconto dell’agenzia di stampa Ansa, affidato al palermitano Adolfo Fantaccini, il re dell’amarcord.

Il testo, allora, con pochi ritocchi nostri.
“I tedeschi ancora mi danno del simulatore, ma altro che: in campo pioveva di tutto, e io crollai a terra”. Dal 20 ottobre 1971 al 21 ottobre 2020 sono passati 49 anni e un giorno da quella sera non troppo rigida, ma piovosa, vissuta nell’angusto fortino del Boekelbergstadion, a M’gladbach. Da qualche giorno John Lennon ha consegnato al mondo l’inno alla pace ‘Imagine’, ma in Germania si prepara una vera e propria battaglia sportiva, che avrà strascichi nelle aule dei tribunali sportivi e rimarrà nell’immaginario del calcio europeo.
Quella sera gioca il Borussia Moenchengladbach dei miracoli, guidato in panchina da Hans Weisweiler e in campo da gente come Netzer o Vogts, contro l’Inter di Gianni Invernizzi: sembra una partita normale, sarà la partita della lattina. Quell’oggetto lanciato in campo poco prima della mezz’ora, sul 2-1 per i tedeschi, colpisce alla testa Boninsegna, l’autore del gol nerazzurro stramazza al suolo tramortito, privo di sensi e con un bernoccolo. Sandro Mazzola si china, raccoglie qualcosa, la consegna all’arbitro, l’impacciato olandese Porpman. È una lattina di Coca Cola, probabilmente la stessa che ha colpito Bonimba, anche se in molti sostengono che il baffo ne avesse raccolta una a caso, fra quelle lanciate in campo. 
È l’andata del secondo turno di Coppa dei Campioni, allora erano gli ottavi di finale (non c’era la fase a gironi) e il lancio si rivelerà determinante per il passaggio del turno. Per i tedeschi è una “messinscena”, non per gli interisti, usciti sconfitti per 7-1, ma scioccati dall’episodio. 
“È stato tutto vero, nonostante qualcuno, come il centravanti Jupp Heynckes, abbia messo in dubbio la mia moralità” – racconta Boninsegna, al telefono – “io non ho mai fatto scena, questa è la verità. Forse Heynckes non ha ancora digerito i 4 gol presi a San Siro nel ritorno. E poi il referto fu stilato dal commissario francese dell’Uefa, mica da me. Mi era arrivato di tutto addosso: lattine, bottiglie, sputi. Sicuramente una lattina mi è arrivata in testa. Mi portarono negli spogliatoi e, fra il primo e il secondo tempo, ricevetti la visita del commissario Uefa, appunto, che consultò anche il dottor Angelo Quarenghi, nostro medico sociale. Noi pensavamo di vincere a tavolino, a dire il vero, perché l’arbitro ci disse che, dopo quel fattaccio, considerava la partita ormai finita”. 
Determinante fu l’arringa dell’avvocato Peppino Prisco, dirigente interista e inviato nella sede della Uefa, a Ginevra, indirizzò la decisione della disciplinare. I tedeschi si appellarono al fatto che a lanciare la lattina era stato un italiano al seguito dell’Inter, ipotesi curiosa, sul 2-1. L’Uefa decretò la ripetizione del match: non si sarebbe, però, giocato a Moenchengladbach, ma a Berlino. “Vincemmo la sfida di ritorno per 4-2, a San Siro, segnai anch’io: nella ripetizione, in Germania, li bloccammo sullo 0-0, grazie anche alle parate di Ivano Bordon, sostituto di Lido Vieri, che era il titolare”, ricorda Boninsegna. L’Inter riuscì ad arrivare fino alla finale, contro l’Ajax del calcio totale e del ‘Profeta del gol’, Johan Cruijff. “Giocammo a Rotterdam, praticamente in casa loro e perdemmo per un paio di errori difensivi, per 2-0 – spiega l’ex centravanti anche della Juve. Eravamo riusciti a chiudere il primo tempo sullo 0-0, nella ripresa arrivò la doppietta di Cruijff: nella prima rete ci fu un equivoco fra Oriali e Bordon e quell’episodio mise la partita in discesa per gli olandesi, che peraltro erano campioni in carica. Però, se avessimo giocato altrove, chissà…”.

Fin qui il Bonimba d’agenzia. Poi c’è il nostro. L’abbiamo visto a Parma, alcune volte, come commentatore televisivo. Quel nomignolo gli venne affibbiato da Gianni Brera.
Classe 1943, mantovano, Boninsegna aveva festeggiato i 70 anni con gli operai della cartiera Burgo (in 180 erano in cassa integrazione), dove il padre Bruno lavorò per una vita. È stato allenatore e dirigente del Mantova, ma senza raggiungere la popolarità e i risultati che aveva toccato da centravanti di Cagliari, Inter e Juve: “Ho commesso l’errore di uscire per 10 anni dal calcio”, ci disse. 
Soprattutto, lega il suo nome al mondiale del 1970, quando segnò in finale al Brasile e pure fu protagonista della storica semifinale con la Germania. “Se il ct Valcareggi avesse impiegato Rivera anche nella finalissima, forse non avremmo perso 4-1”.
Fra i grandi bomber successivi alla sua era si rivedeva in Vieri: “Potente e mancino come me. Avevo vinto due volte la classifica cannonieri e una ero arrivato secondo solo perché mi hanno levato un gol. Balotelli? Non diventerà mai forte quanto Riva. Né, d’altra parte, Totti è ai livelli di Gianni Rivera”.
Entrambe le previsioni erano state azzeccate, anche se il capitano della Roma era stato penalizzato dall’essere rimasto nella capitale.
Bonisegna fece il direttore sportivo, a Reggio Emilia, nel 1987, con la presidenza di Giovanni Vandelli, e poi entrò nello staff federale, per 13 stagioni di fila resse la nazionale giovanile di Serie C. Un impegno molto diverso e assai più blando, nonostante i tanti talenti scovati, rispetto alla panchina di una squadra professionistica.
Boninsegna completò le giovanili dell’Inter, passò al Prato e al Potenza, entrambe erano in Serie B, al punto più alto della loro storia. In Basilicata, con Silvino Bercellino segnò la bellezza di 55 gol, arrivando a tre punti dalla promozione, in una terra da sempre fra le meno ricche della penisola. Quindi andò al Varese, poi quel triennio al Cagliari, con la parentesi negli Usa, ai Chicago Mustangs, fra i primi italiani a espatriare. Passò all’Inter nella stagione dello scudetto in Sardegna, irripetibile, a 33 anni arrivò alla Juve e giocava, non solo alla Altafini. Infine il Verona e la Viadanese, nel Mantovano.
Bonimba ha vinto tre scudetti (Cagliari, Inter e Juve), la prima Coppa europea della Juve (Uefa), in Serie A infilò 163 reti in 350 gare; in nazionale, 9 gol in 22 partite. 
In Federazione aveva cominciato nell’89 e guadagnava appena 80 milioni l’anno. Nel Mantovano, al Sant’Egidio, era cresciuto, da calciatore. Nel Mantova non ha mai giocato. Ne era stato direttore sportivo, nell’80-81, aveva accettato di allenarlo anche su pressione del sindaco, Gianfranco Burchiellaro, a celebrare il più grande calciatore nella storia virgiliana, con il benestare di Mario Macalli, allora presidente della Lega di Serie C.
“Nella mia carriera ho avuto grandissimi allenatori (Valcareggi e Trapattoni su tutti, ndr) e ho cercato di estrapolare il meglio da ognuno”.
Sempre quando compì 70 anni, venne raccontato da Gianni Mura, il fuoriclasse di Repubblica scomparso quest’anno.

Qui il testo, dall’archivio.
La foto dai toni seppia fa il giro del tavolo sotto il pergolato, fuori dalla trattoria. È cominciato tutto lì e non è ancora finito. Gli Invincibili del Sant’ Egidio, anno 1957. Due anni (1956/58) senza mai perdere una partita e la prima sconfitta arrivata con la monetina del sorteggio. “Io sono il secondo in basso da destra. Un ragnetto“, dice Roberto Boninsegna.
“Tant’ è che giocavi mezzala, il bomber ero io”, dice Adalberto Scemma, secondo da sinistra in alto, poi diventato giornalista, e pure bravo. “Vero, ma eri tutto velocità, tecnica poca”, dice Boninsegna. Ed è curioso sentir parlare di tecnica uno che è passato alla storia (del calcio) come simbolo di forza e coraggio, sturm und drang, un satanasso. Però ne aveva, e tanta, visto che segnava in tutti i modi, quasi sempre di potenza, e da tutte le posizioni. E un po’ di merito ce l’ha Massimo Paccini, l’allenatore di allora, in posa sulla destra come un maestro con la scolaresca. “Brava persona, bravo tecnico, ha vinto un titolo nazionale sulla panchina del Guastalla, con Gene Gnocchi in campo, ha curato le giovanili del Mantova. È morto un mese fa, prima di morire s’è fatto portare sul campo dell’Anconetta, dove giocavamo. Ai funerali c’ eravamo tutti noi degli Invincibili”. 
Il capitano di quella squadra, Franco Salardi detto Cina, è il titolare della trattoria, adesso sta tornando con una bottiglia di Lambrusco bello scuro e una sleppa di Grana. Boninsegna indica la foto: “Sembriamo più giovani, no? È perché c’ era meno da mangiare. Ecco, questo biondino è Scardeoni detto Nacka, venne con me alle giovanili dell’Inter, poi al Genoa lo allenò Sarosi, ma lui aveva in testa l’arte e adesso fa l’antiquario a Lugano. Pedrazzoli è diventato pittore, ma anche assessore alla cultura. Alfano, direttore dell’Inps. Fornasari funzionario della Belleli che ha ristrutturato San Siro”. 
A un certo punto penso che siamo indietro nel tempo, o forse fuori dal tempo. Quando mi ricapiterà di fare un’intervista sotto un pergolato, senza che l’intervistato guardi l’orologio ogni cinque minuti? E con un intervistato che parla senza reticenze? È qui che capisco quanto forte sia il legame tra compagni di squadra, anche ragazzini, che si separano ma non si perdono. O dovrei dire compagni e basta, compagno centravanti? “Lascia stare, la definizione l’hanno coniata per Sollier. Io non ho mai avuto problemi, nemmeno con Agnelli e Boniperti che certamente non la pensavano allo stesso modo. Non facevo comizi, ma non ho mai nascosto da che parte stavo. E da che parte potevo stare? Mio padre era nel consiglio di fabbrica, alla Burgo. Bastava che facesse un fischio e si fermava il reparto. Aveva perso tre dita sotto una pressa, così in guerra non c’ era andato. Ma in fabbrica avevano un bel po’ d’ armi nascoste. Tutte cose che ho saputo da altri. Era un omone, mio padre. Parlava poco ma lasciava il segno. Mia madre era più estroversa. E tifava Mantova anche con me in pancia. Al cancello dello stadio l’hanno bloccata che era all’ottavo mese, preoccupati. Elsa, non vorrai mica farlo qui? Te sta’ tranquillo, disse lei, mi sono portata appresso la levatrice”. Tutto questo in dialetto mantovano, mi spiace non saperlo trascrivere. Avanti.
“Non ho mai avuto paura nemmeno da bambino, nemmeno del buio. Non ero mai solo. Vivevamo in due stanze in corso Garibaldi, vicino all’ex macello, dove adesso c’è la biblioteca comunale. E i cosiddetti servizi, fuori in cortile. Vedevo mio padre uscire in bici la mattina presto e rientrare distrutto, e tossire, tossire. La fabbrica ti dava da vivere e ti accorciava la vita. Non usavano le mascherine, un litro di latte gratis al giorno e via andare. È morto a 61 anni. Fino a che non mi sono sposato tutti i guadagni li davo in casa. Così prima s’ è comprato un Vespino, almeno poteva tornare a casa nella pausa e mangiare qualcosa di caldo, poi una macchina. E a mia madre ho preso un negozio di merceria”.
Alza un braccio: “Vorrei chiarire una cosa. Tutti hanno scritto che festeggerò i 70 passerò in fabbrica. Non è vero. Lo passerò in famiglia, con mia moglie Ilde che ho sposato 45 anni, aggiungine sette di fidanzamento, posso dire che è la donna giusta di tutta una vita. E i miei figli: Gianmarco avvocato, Elisabetta psicologa. E Giovanni, il nipotino. Per questa storia della fabbrica mi hanno cercato anche dei giornali e delle radio di Roma. Ci vado il 5 per appoggiare il presidio dei 180 lavoratori che resistono da febbraio e forse c’è ancora un filo di speranza che le cose si aggiustino. Ma proprio un filo. Nella sala mensa della Burgo c’è un grande crocifisso e ai lati due quadri con falce e martello. Ecco, mio padre non mi ha indottrinato né mi ha mai proibito di frequentare i preti. Gli Invincibili era la squadra dell’oratorio. Una volta son tornato a casa e gli ho chiesto: papà, ma è vero che voi mangiate i bambini? È una balla, ha detto, e può avertela raccontata solo un prete, bisognerà che vada a parlarci. Bene, fermiamoci qui, tanto poi è chiaro che Berlusconi è stato la rovina dell’Italia e che dalla sinistra, con Bertinotti e D’Alema, gli sono arrivati buoni assist”. 
Ho una curiosità, dopo tante pagine di taccuino riempite. Nel calcio ci sono biografie di cani e porci. Perché lui no? “Me l’hanno proposto e c’era anche un discreto ingaggio. Ma ho detto no grazie, perché se avessi raccontato tutta la verità avrei sputtanato un sacco di gente e se non l’avessi raccontata mi sarei sputtanato io. Tanto valeva lasciar perdere”. Il resto è sintesi. 

Il cambiamento: “Inizio da mezzala, divento seconda punta. E la prima punta, il povero Taccola a Prato, Bercellino a Potenza, è regolarmente capocannoniere del torneo. A Varese segno poco, prima punta è Combin. A Cagliari segno un po’ di più, anche se c’è Riva. Un giorno Scopigno mi dice: siamo pochi e gli unici ad avere mercato siete tu e Gigi. Lui non si vuole muovere, e tu? Io qui ci sto benone, ma se mi date via accetto solo l’Inter. Affare fatto. Arrivano in cambio Domenghini, Gori e Poli più ottocento milioni, mica poco. E senza di me il Cagliari vince il suo primo scudetto. Io il primo con l’Inter, l’anno dopo, quando mi ero trasformato in prima punta. Ragionamento: se fare i gol è così importante, tanto vale che li faccia io. Sono diventato più egoista, più cattivo, più finalizzatore. Anche perché, siamo onesti, con intorno gente come Suarez, Corso e Mazzola era una pacchia”.

Gli avversari: “Il più bravo e corretto di tutti, Guarneri. I più rognosi, nell’ordine: Spanio, Rosato, Galdiolo, Morini. Di quelli che ho incontrato, troppo facile dire Pelé o Gerson, Rivelino o Jairzinho. Sto in Europa: Overath in cima, poi alla pari Beckenbauer e Crujiff. Ricordo che non c’erano tante moviole e tante regole: il fallo da ultimo uomo, per esempio. E avevi difese a uomo, stopper più libero. Prima era il difensore a stare attaccato all’attaccante, adesso con le difese in linea l’attaccante furbo va a farsi marcare dal difensore più scarso”.

Gli allenatori: “Se oggi uno come Guardiola mi dicesse che il suo centravanti è lo spazio io gli direi: no, il centravanti sono io, e cambio squadra. Ne voglio ricordare tre. Scopigno era pigro ma intelligentissimo, non sbagliava mai un cambio, anche perché a Cagliari eravamo pochi, contati, una riserva per settore e quattro della Primavera. Senti questa: d’accordo col Cina, il capitano degli Invincibili, sciambola. Carnevale di Venezia, con le morose. Avevo prenotato su un volo alle 7 per Cagliari. Che tarda. Arrivo, salto su un taxi e gattono dentro all’Amsicora, confidando sul fatto che Scopigno non amava alzarsi presto. E invece lo trovo piantato davanti allo spogliatoio. E mi fa: “Capisco lo smoking, ma almeno potevi toglierti i coriandoli dalla testa”. Herrera è stato un grande. Tatticamente. Poi aveva dei difetti, ma tatticamente meritava che lo chiamassero Mago. E poi Trapattoni, grande professionista, il primo all’ allenamento, l’ultimo a uscire. A me il sabato piaceva calciare una trentina di rigori, mi aveva insegnato Meazza. e poi tirare al volo sui cross. Pioveva, un giorno, e ne ho tirato uno altissimo. “Bobo, vuoi che ti dica dove hai sbagliato?”. “Scusa Trap, ma tu quanti gol hai fatto da professionista?”. “Sei o sette”. “Io 160, non mi menare il torrone”. Mi ha fatto dare 150mila lire di multa, ma poi amici come prima. Anche se quand’ero alla Juve non ha mai azzeccato un cambio”.

Gigi Riva. “Come fratelli, abbiamo diviso per due anni la stessa camera, poi mi sono sposato ma siamo rimasti amici. In campo ci mandavamo spesso a quel paese, questione di temperamento. Un giorno giochiamo in Mitropaa Skopljee c’è invasione di campo, noi due siamo i più lontani dallo spogliatoio. Nenè fa in tempo a infilare la porta e chiude a chiave, e noi fuori a urlare “apri, deficiente”. E intanto arrivavano i tifosi, sembrava un film con Bud Spencer e Terence Hill. Ne abbiamo stesi un sacco, ma ne abbiamo anche prese. Ma la paura più grande non è stata lì, ma quando Gigi m’ha proposto un giretto in macchina verso Villasimius. Aveva un’Alfa Quadrifoglio truccata. Non c’erano le cinture. Curve su due ruote. Il giorno dopo ho fatto l’assicurazione sulla vita”.

I gol: “Il più bello al Foggia, in rovesciata. I più importanti in Messico: l’1-0 alla Germania, ma sono anche fiero dell’assist a Rivera per il 4-3, e il temporaneo 1-1 col Brasile. Nell’intervallo eravamo convinti di farcela, bastava che Valcareggi mettesse dentro Rivera al posto di Domenghini che non stava più in piedi. O meglio, che Rivera giocasse dall’inizio. Abbiamo regalato al Brasile il Pallone d’oro nella partita più adatta a lui. E senza staffetta. Mi piacerebbe rigiocarla con Rivera, quella finale”.

La panchina: “Forse è stato un errore rimanere nove anni fuori dal calcio, ma volevo godermi la famiglia. Poi ho fatto per 13 anni il CT dell’Under 21 di C. Meglio che fare l’allenatore, perché da selezionatore se un giocatore rompe i coglioni non lo convochi più, mentre da allenatore te lo devi tenere almeno un anno. Ho scovato gente come Toldo, Abbiati, Amelia, Fortunato, Barzagli, Iuliano, Bertotto, Di Biagio, Iaquinta, Montella e Toni, che era riserva nel Fiorenzuola e che chiamavo sbrindellone caracollante. Mi aspettavo qualcosa di più dalla federazione ma non mi lamento, so di essere stato un privilegiato”.

Due chicche (Brera e il monatto): “Bonimba lo devo a Brera. A San Siro gli ho chiesto perché. Perché hai il culo basso e quando corri mi ricordi Bagonghi, nano da circo. Ho incassato guardandolo come per fargli capire che coi miei 176 centimetri ero più alto di lui. Poi Brera scrisse sul Giorno, più o meno: è inutile che Bonimba mi guardi dall’alto in basso, nano l’ho battezzato e nano resta. Un nano gigante, però. Quanto al monatto, un giorno mi telefona Facchetti. Bobo, c’è il regista Salvatore Nocita, un interista vero, che girerà a Mantova un pezzo dei Promessi sposi, sceneggiato tv, e ha pensato a te. Che parte dovrei fare, Giacinto? Il monatto, quello che carica gli appestati sul carretto. E perché non lo fai tu? Perché io sono alto, bello e biondo. Così ho fatto il monatto, senza pensare di essere basso, brutto e moro. E mi sono anche divertito”.

Ecco, questo racconto ci fa rivivere Boninsegna e Gianni Mura, più un grande amico come Adalberto Scemma. L’intervista senza minutaggio, tranquilla, libera, vera, infinita, senza le finte di oggi quando ci vedono. “Dobbiamo andare, non possiamo”. Giusto per evitare di finire in un video articolato.

Vanni Zagnoli

Da “Assocalciatori.it”

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