Il Gazzettino, Padova. Rai, Franco Bragagna racconta il suo essere patavino: “Senza la malattia del nonno, sarei rimasto a Voltabarozzo chissà per quanto tempo, invece la lasciai a 2 anni e mezzo. E quelle morose a Sottomarina, sino ai 23 anni, nella spiaggia dei padovani…”

L’integralità dell’intervista uscita sulla pagina di Padova de Il Gazzettino, la scorsa settimana

Vanni Zagnoli

“Ode smisurata a Franco Bragagna. Il re del “racconto”, pure a Rio”. Così titolava una settimana fa Libero, a firma di Fabrizio Biasin. Ma quella voce è padovana, di nascita e anche di militanza, confermata dal premio La Rocca d’oro, ritirato a Monselice, nel 2008, dopo l’olimpiade di Pechino, come giornalista veneto dell’anno.

Bragagna, quanto c’è di patavino in lei?

“Ho lasciato la città del Santo a due anni e mezzo – racconta da Rio, nella pausa delle gare di atletica -, sono nato nel quartiere Voltabarozzo. Papà Carlo lavorava all’ospedale di Padova, morì a 42 anni, quando io avevo 15 anni, ma venimmo via quando mio nonno si ammalò e lui ottenne il trasferimento in Trentino. Torno ciclicamente, con molta regolarità, senza quei problemi familiari sarei cresciuto lì”.

Ha parenti, a Padova?

“No, i contatti sono per lavoro. Amici, conoscenti. Senza dimenticare una decina di morose, sino ai 23 anni, a Sottomarina, la spiaggia dei padovani”.

Ha la qualifica di inviato radiotelecronista. Da dove si muove?

“Dalla sede Rai di Bolzano, ma in realtà faccio capo a Roma, a Raisport”.

Anche la famiglia è in Alto Adige?

“In parte. Mia moglie Gabriella, Pordenone, 52 anni, è impiegata all’ospedale, responsabile amministrativa dei ricoveri internazionali. Abbiamo 4 figli. Davide, 29 anni, lavora in Polonia, a Varsavia, come amministrazione e marketing di una multinazionale americana, la Medtronic, elettromedicale, ma tornerebbe se potesse fare il giornalista. Andrea, 22 anni, si laurea in economia, fa un master negli Usa ed è semiprofessionista nel calcio, grazie al fratello dell’ex Chievo Michael Bradley: la famiglia del centrocampista è proprietaria di 17 squadre, in tre leghe. Carlotta, 19 anni, ha il diploma di liceo classico-linguistico e ora si muoverà tra Germania e Inghilterra. Infine Camilla, 11 anni”.

Ha simpatia per il Padova?

“Non sono un tifoso di calcio. Amo le piccole squadre e seguii i biancoscudati quando tornarono in serie A, anche nel ritiro di Bressanone. Era il ’94, ricordo l’americano Lalas e l’olandese Kreek, oggi collaboratore di Frank De Boer, il nuovo allenatore dell’Inter. In particolare avevo un buon rapporto con la bandiera Aurelio Scagnellato, scomparso nel 2008. Era lo stopper del grande Padova, accanto a Blasone, all’epoca si spazzava via la palla, anche a distanza di 60 metri. E’ stato il dirigente accompagnatore, nato a Fortezza, di Bressanone, da un ferroviere. Con lui parlavo il dialetto padovano, era uno spasso ricordare Nereo Rocco. Rammento la salvezza ai rigori, vincendo lo spareggio con il Genoa”.

Altre squadre padovane seguite?

“Mi piaceva il Petrarca, nel rugby ma pure nel basket. Negli anni 60, veniva subito dopo Ignis Varese, Simmenthal Milano e Forst Cantù, con Gianluca Jessi playmaker”.

Nella maratona olimpica, Ruggero Pertile da Villanova è da prime 8 posizioni?

“Ci ha abituato a mirabilie, certo una medaglia sarebbe fantascientifica, a 42 anni suonati. Non dimentichiamo che per tante stagioni non ha corso da professionista, tatticamente sbaglia niente, farà da guida al più accreditato Meucci. Lo trovo commovente, certamente nel gruppo dei più forti è il più anziano degli iscritti”.

Chiara Rosa da Borgoricco era convocabile…

“O meglio, era difficile chiamarla a Rio, ma come hanno portato altri che non avevano ottenuto il minimo potevano fare un’eccezione anche per lei. Nel peso avrebbe dovuto fare 17,75, si è fermata a 17,40, ovvero due spanne sotto”.

Con Chiara ha un rapporto privilegiato?

“Beh, non proprio. Quattro anni fa vinse il bronzo agli Europei di Helsinki, nell’anno olimpico, li avevo definiti di serie A2, poiché tutta l’attenzione dei migliori è per l’appuntamento a cinque cerchi, e lei se la prese. Nel 2012 li vinse Donato, nel triplo, e quasi confermò il salto all’olimpiade, con il bronzo. Ecco, l’atletica è misurabile, sempre”.

Il ct padovano Francesco Uguagliati meritava la sostituzione?

“Dopo Londra ci fu un cambio completo di organigramma. Il presidente Giomi aveva presentato il dt Massimo Magnani nel suo manifesto elettorale, si aggiudicò il ballottaggio sull’ex Franco Arese e così effettuò il cambio. Probabilmente Uguagliati poteva trovare spazio nei ruoli tecnici, non so se abbia compiuto lui il passo indietro. Mi è sempre piaciuta la sua ironia, a volte anche amara”.

Dal Cus sono usciti persino due presidenti di federazione: Sergio Melai (hockey su prato, anche membro di giunta Coni) e Antonio Di Blasi (scherma).

“Per un po’ di tempo commentai la nazionale di hochey, era il ’96 e con Melai si creò un affetto reciproco: “Come fai tu le telecronache – confessò -, con il tuo brio, fa bene anche al movimento. Vent’anni fu ci fu la coppa del mondo in Sardegna, l’Italia perse la finale per il 5° posto con la Svizzera, l’avesse vinta si sarebbe qualificata alla prima olimpiade nella storia, fu comunque il miglior risultato dell’hockey su prato maschile”.

Il Cus ha festeggiato a maggio i 70 anni, le Fiamme Oro hanno vari atleti a Rio e pure Assindustria è ancora in attività, nell’atletica.

“Il movimento lì resta in fermento. Nell’ultimo meeting di Padova ho visto un’inversione di tendenza, dopo una lenta caduta”.

A cura di Giangabriele Perre

 

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