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Vanni Zagnoli
Paolo Rossi non c’è più, se n’è andata la faccia pulita dell’Italia, capace di far riprendere il Paese, negli anni del terrorismo e della crisi economica.
Due settimane dopo Diego Armando Maradona ci lascia uno dei più amati dagli italiani, che in secondo nozze aveva sposato Federica Cappelletti, una giornalista che ha scritto anche la sua biografia.
Paolorossi, scritto così, tutto d’un fiato, resta il campione italiano più popolare nel mondo, per il mondiale del 1982 vinto anche grazie ai suoi 6 gol. Ci mancheranno il sorriso radioso, le sue ginocchia fragili, passate dalla squalifica per il calcioscommesse, sempre contestata, che gli fece saltare gli Europei del 1980, al trionfo di Spagna.
Era un’Italia declinata a memoria: Zoff; Gentile, Cabrini; Oriali, Collovati, Scirea; Causio, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Era la formazione base, poi con il Brasile, nella semifinale con la Polonia e in finale con la Germania giocò Bergomi. E c’erano praticamente tutti al funerale, mancava giusto l’unico altro scomparso, Gaetano Scirea, un altro mito.
Fu in Spagna che divenne Pablito. Aveva 64 anni, è stato sconfitto da un male inesorabile e in effetti da qualche tempo non era più al seguito della Nazionale, con la Rai, e neanche per la Champions league.
Era un simbolo assoluto del nostro Paese nel mondo, un’icona non solo del calcio. Anche nel dopo carriera, la disponibilità era unica, con tutti, al contrario magari di altri campioni meno riconosciuti ma più difficili da inseguire.
Paolo Rossi aveva fatto sorridere tanti italiani, in quel mundial, con la pipa di Enzo Bearzot e la bonomia del presidente della Repubblica Sandro Pertini, esultante al fianco del re di Spagna. Era l’Italia di capitan Dino Zoff, 40 anni, e soprattutto di Pablito, all’epoca 26enne. Era un centravanti da area di rigore, il classico opportunista, viveva per il gol.
«Non ha mai fatto pesare nulla – racconta Franco Selvaggi, il meno noto dei campioni del mondo, 67 anni, materano -. Ero molto legato, come tutti noi azzurri, perché Paolo era amico di tutti, avevo un rapporto splendido, rimasto nel tempo. Se siamo campioni del mondo è grazie ai gol di Paolo. Anche le nostre famiglie si sono conosciute. Quando ero al Toro e lui alla Juve cenavamo insieme. Mi faceva vedere le lettere che riceveva dalla Lapponia, dal Madagascar. Sarebbe voluto venire a Matera per visitare i Sassi e con l’occasione avrebbe fatto due giorni di lezioni ai bambini della mia scuola calcio. In quel Mondiale non c’era un’Italia di titolari e un’altra di riserve”.
Selvaggi era il 22°, fu una scelta precisa di Bearzot, dato l’infortunio di Roberto Bettega ai legamenti. Evitò di scegliere Pruzzo per evitare di creare un dualismo con Rossi.
“Per me era un amico fraterno, era un grande calciatore e una grande persona, un ragazzo stupendo, di semplicità e umiltà incredibile. Essere stato eroe del mondial non gli ha cambiato la vita di una virgola, sempre disponibile con tutti. Amava la vita, era un ragazzo normale che aveva un grande talento, era rimasto se stesso, non è facile”.
Toscano, di Prato, Rossi era cresciuto nel Santa Lucia, poi nell’Ambrosiana, quindi alla Cattolica Virtus, società fiorentina. Passò alla Juve nel ’72, a 16 anni. Aveva come idolo Kurt Hamrin, della Fiorentina, gli asportarono poi tre menischi, un po’ per una costituzione delicata e un po’ perché all’inizio degli anni settanta i difensori sono ruvidi, come quel Macela, del Dukla Praga, in Europa, con il Vicenza. Esordì in coppa Italia, contro il Cesena, con Capello e Altafini come compagni.
Va in prestito al Como, dove non brilla, la svolta sarà a Vicenza. Tre stagioni memorabili con il Lanerossi, promozione in serie A, secondo posto e retrocessione. In biancorosso segnò 60 gol in 3 anni, con quell’esultanza dopo i gol sulle spalle dei compagni, con Gb Fabbri allenatore, il tecnico che più l’ha valorizzato, insieme a Bearzot. Dopo la seconda stagione, il presidente Giussy Farina lo riscattò dalla Juventus, pagando due miliardi e 612 milioni di lire, una cifra che all’epoca fece scandalo, tantopiù che battè Boniperti e gli Agnelli, con l’offerta in busta. Non aveva muscoli, era mingherlino, era il più agile e il più furbo di tutti, sapeva prima degli altri dove sarebbe spuntato il pallone, magari da una mischia, per metterci un piede, uno stinco, la testa.
Rossi si fece male a un ginocchio, poi retrocedette. Farina lo mandò al Perugia di Ilario Castagner, dopo che lui aveva rifiutato il Napoli: «Che vado a fare? Il salvatore della patria?». In Umbria arrivò settimo, nel ’79-’80, con la squadra che era stata vicecampione d’Italia.
Nella partita con l’Avellino, nella primavera dell’80, firmò una doppietta, venne accusato di averla truccata e fu arrestato al termine del match dell’Olimpico contro la Roma. Nel frattempo era stato protagonista dell’Italia più spettacolare, quarta al mondiale del 1978, sconfitta per 2-1 nel girone, da due tiri da lontano di Brandts e di Haan, dell’Olanda, che sorpresero Zoff. Stesso risultato anche nella finale per il 3° posto. All’epoca era in coppia con Roberto Bettega, mentre Graziani era in panchina e Pulici neanche giocò un minuto.
Riprese con la Juve di Giovanni Trapattoni, giusto tre prima del mondiale. Rossi pensò anche di smettere di giocare, lo convinse Boniperti a ripartire, nell’81, la pena terminò nell’aprile successivo e Rossi realizzò anche un gol all’Udinese e conquistando così lo scudetto, valso la seconda stella per il club bianconero. A Torino vinse un altro titolo, la coppa delle Coppe, una supercoppa Uefa e una coppa dei Campioni, nella tragica Heysel, in cui i bianconeri riscattarono comunque la finale persa da favoritissimi, ad Atene, contro l’Amburgo.
Nell’85 Pablito andò al Milan, sempre da Giussy Farina, che poi cedette la società a Silvio Berlusconi. Con la Nazionale, intanto, fallì la qualificazione alla fase finale dell’Europeo ’84, mentre due anni più tardi, in Messico restò in panchina, Bearzot gli preferì Galderisi, che aveva 23 anni.
Chiuse la carriera a soli 31 anni, per i problemi alle ginocchia, con le ultime 4 reti.
Insieme a Roberto Baggio e a Vieri, detiene il record di gol azzurri ai mondiali (9), è stato il primo giocatore a vincere nelle stesso anno il campionato del mondo, il titolo di capocannoniere e il Pallone d’oro, in quel 1982. Solo la testardaggine del ct Bearzot placò chi non voleva Rossi nell’Italia. Iniziò in sordina, nel girone di Vigo, contribuì al 2-1 sull’Argentina con un assist e fece la storia con la sua tripletta contro il Brasile, la doppietta alla Polonia e il primo gol in finale alla Germania, al Bernabeu. Prima di lui, l’unico Pallone d’oro italiano fu Gianni Rivera, poi Roberto Baggio e Fabio Cannavaro.
In carriera ha giocato 340 partite, segnando 134 gol, in azzurro vanta 48 gettoni e 20 reti. All’epoca era il fidanzatino d’Italia.
Un nome comune diventato unico, Paolorossi, come un timbro, un marchio. Fu Bearzot in Argentina a chiamarlo Pablito e per lui fu un secondo padre. Molti anni dopo, sarebbe andato più volte a trovarlo.
Il vero padre, di Paolo Rossi, si chiamava Vittorio, era impiegato in un’azienda tessile a Prato, grande tifoso di Fausto Coppi e della Fiorentina e quando era bambino lo portò a vedere il Santos di Pelè.
Fece piangere il Brasile, come da suo libro, scritto con Antonio Finco, ma anche l’Italia, di gioia, adesso lo piange per questa morte improvvisa che sconvolge il mondo del calcio in un 2020 devastato dai lutti. Due settimane dopo Diego, se ne va anche Rossi.
Esultava braccia al cielo e correndo a perdifiato, lottava con il male da un anno, aveva nascosto il suo dolore e le sue sofferenze.
“Aveva fiducia nei sanitari – spiega il fratello Rossano Rossi a La Nazione -, si era affidato loro con la massima disponibilità, ha offerto ai medici ogni energia per superare il male. Si è aiutato da solo, con l’affetto della famiglia, di noi. Si collegava dal pc di casa con la Domenica sportiva, come tanti fanno, oggi, in tempi di Covid. Per sostenere la breve intervista era necessaria una iniezione che lo tenesse su. Il medico gliela praticava poco prima”.
Lascia anche tre figli: Sofia Elena, Maria Vittoria e Alessandro.
Da “Il Calciatore”