Vanni Zagnoli
Ci sono Cristiano Ronaldo, che guadagna 31 milioni, De Ligt (8) e Ibrahimovic (7), ma in serie A ci sono anche calciatori arrivati in barcone, da profughi. E’ il lieto fine, l’altra faccia del pallone, sempre più mondo dorato, con una galleria di ricchi (soci e sponsor) e di bellissime (fidanzate, madri e hostess). Di fratelli manager e di procuratori, di assistenti di campioni e di ritiri organizzati per marketing.
Il calcio è ripartito, anzi non si è mai fermato, dopo il covid, ma sa raccontare storie memorabili. Ne abbiamo selezionate tre, fra le tante.
Musa Juwara ha la più recente, segna a San Siro, nel 2-1 in rimonta del Bologna, postlockdown. Compirà 19 anni a santo Stefano, viene dal Gambia, il più minuscolo paese dell’Africa, un milione e 700mila abitanti, meno dei 2,7 di Roma.
La lista Onu per indice di sviluppo umano è emblematica, per aspettativa di vita, livello di istruzione e prodotto interno lordo i gambiani sono 173esimi su 188 nazioni: un terzo della popolazione vive con 1,25 dollari al giorno, il 40% ha meno di 14 anni, il 60 meno di 25.
Juwara è compagno dell’altro Musa, Barrow, pure gambiano, arriva dall’Atalanta e a Bologna si è imposto con 9 reti, nel girone di ritorno.
Juwara è brevilineo, calcia secco. Partì dal Gambia a 15 anni, si è raccontato su La Gazzetta dello sport, a Walter Veltroni.
Da Tujereng, piccolo villaggio, un vicino lo aiuta a realizzare il sogno di tanti giovani africani. Il demiurgo è lo stesso che imbarcò due ragazzi di Conakry, Yaguine e Fodè, nascondendoli nel vano del carrello di un aereo per Bruxelles.
Li trovarono congelati, addosso avevano una lettera ai “responsabili dell’Europa” in cui dicevano: «Aiutateci, soffriamo enormemente in Africa, aiutateci, abbiamo dei problemi e i bambini non hanno diritti».
Avevano quindici anni.
«Vedevamo in Europa una vita diversa, era il luogo dei sogni e delle possibilità, guardando i film, la televisione e il calcio. Il viaggio costava tanto, mia madre era insegnante, vendette tutto per farmi imbarcare e anzi si indebitò. Eravamo sicuri che con il calcio avrei potuto mantenere lei e i fratelli”.
Musa partì con un amico poco più grande. “Attraversammo Senegal e Mali, Burkina Faso e Niger. Viaggio duro, si dormiva in auto. Arrivati in Libia, volevo tornare indietro, ma non si poteva, ero terrorizzato, c’era gente con la pistola per strada: rischia la vita chi rifiuta un ordine, un lavoro. La polizia magari ti sbatte in galera, se non paghi. Superato lo choc, mi imbarcai, solo che non so nuotare, mi prese il panico. Il compagno di viaggio mi rassicurava: “Stiamo per arrivare, manca poco”.
Bugie, consolatorie. “Restammo in mare 10 ore, le onde si alzarono e stavano per travolgerci. Se non avessimo incontrato la nave di una Ong tedesca saremmo morti tutti”.
Con lo sbarco a Messina inizia la nuova vita di Juwara, che abbiamo visto nel ritiro del Bologna, a Pinzolo.
“Dallo stretto ci hanno smistato in Basilicata, dormivamo in 12 in una casa. Io volevo giocare a calcio, ero bravo, avevo imparato per strada. A Potenza iniziai dal calcetto, segnavo tanto, mi prese in cura la famiglia di un allenatore, passai a Verona, al Chievo. Per le regole della Figc non avrei potuto giocare sino a 18 anni, ma io dovevo mandare i soldi a casa. Non avevo neanche i pantaloni, fu il procuratore Federico Pastorello a vestirmi e farmi imparare l’italiano, mi fece superare il problema giuridico e raggiungere Bologna”.
Musa ha fatto piangere Mihajlovic: “Non vedo la mamma da quattro anni, gli ho chiesto il favore di arrivare alle 5 partite che facevano scattare il bonus del contratto”. Sinisa conosce il dolore, della guerra in Bosnia e della leucemia, l’ha accontentato e lo aiuta lui, economicamente, per farlo tornare in Gambia, dalla famiglia.
Seconda storia, nota. Il viaggio di fortuna è albanese, di Elsedi Hysaj, del Napoli. Esterno difensivo, ha realizzato in estate la sua prima rete in A, è un elemento di rendimento. Aiuta Shpresa («Speranza») e le tre sorelle. Nel 1996, il papà venne da noi in gommone, quando il figlio aveva due anni.
“Vivo una vera favola – raccontò a Il Mattino, a Pino Taormina -. Quanto è successo a me capita solo a uno su un milione. Chi arriva sui barconi ha fame, la stessa che avevamo noi. Crescere in Albania fortifica: per i sacrifici compiuti da mio padre per vivere decentemente, mentre chi ci stava attorno soffriva; per la consapevolezza di quante volte abbia sfidato la morte per attraversare l’Adriatico a bordo di un gommone da 10 posti, con 30 disperati stretti e le onde alte altre 6-7 metri e molti volati in mare per la velocità”.
Come arrivò papà Gezim?
«Partì da Scutari tre volte, per due tornò indietro perché sentiva la mancanza della famiglia e della sua terra. Fece il muratore, in Toscana, nella casa di un procuratore sportivo, Marco Piccioli, e presto aprì una piccola ditta di costruzioni. L’ha chiusa, dopo 20 anni, ma adesso è tranquillo e viene a vedermi. Eravamo in Toscana dal 2009, io ho imparato l’italiano tra Firenze ed Empoli, sui campi di calcio».
Arrivò da noi a 14 anni, nel 2008, per un provino con la Fiorentina, promulgato naturalmente da quel Piccioli. Non venne tesserato per motivi burocratici, ci riuscì poi l’Empoli del ds Marcello Carli, versando nelle casse del Vllaznia 50 mila euro. Nei tre anni con il presidente Corsi, meritò la chance a Napoli, assieme a Sarri, nelle ultime due stagioni ha perso parecchio minutaggio e presenze, resta un buon giocatore.
Sul classico barcone arrivò anche Daniel Adejo, 31 anni, per 8 stagioni nel nostro calcio e questa storia non l’ha mai raccontata nessuno.
A 14 anni partì dall’Africa senza sapere esattamente dove fosse diretto, neanche se fosse salpato dalla Nigeria, nè dai paesi confinanti. Visse momenti drammatici, in quelle avventure si perde la cognizione del tempo, soprattutto di notte. “Pensavo di essere in Grecia o in Turchia”, confidò tempo fa in spogliatoio. Era buio, faticava a orientarsi, la luce sulla sua nuova vita non si accendeva. Era il 2003, era un clandestino qualsiasi, tanto che perse il passaporto e allora iniziò la trafila per ottenere documenti nuovi.
“Venne a Reggio Calabria – ricorda Francesco Barresi, già responsabile del settore giovanile del Napoli e della Reggina, ora al Verona -, per completare il processo di crescita. Era stato adottato da una famiglia di Rovigo, restò là 1-2 anni e lo aiutarono per le cose basilari”.
Fu tesserato dall’Este, società padovana in serie D, nel 2006-07. “Approdò in Veneto grazie a conoscenze – spiega il procuratore Simone Canovi – insieme a un amico. Non era arrivato per lavorare, nè per giocare a pallone. Prima di tutto voleva vivere”.
Un decennio fa, suscitò addirittura l’interesse del Milan.
“Stava per raggiungere Milano – riprende Barreca – e firmare il contratto, eppure lo convicemmo a venire da noi per essere valorizzato più in fretta. Ricordo i suoi occhi incredibili e il motto: “Se posso fare per 10, devo farlo””.
Alla Reggina tardava ad arrivare l’ok per essere impiegato nella primavera, a un certo punto non ci sperava più. “Il nullaosta per il debutto nella squadra primavera giunse di venerdì, quel giorno pianse e mi abbracciò”.
Sullo Stretto visse con francesi e congolesi. “Era lui il responsabile di tutto, al convitto del centro sportivo Santagata, a Reggio. Educava i più giovani, per esempio a non lasciare niente nel piatto. Li seguiva nel dopo, cena e scuola, naturalmente noi seguivamo lui. Tuttora in tanti lo contattano, siamo tutti molto legati a Daniel”.
Si affermò anche con la Nigeria, disputando il mondiale under 20. “Per questo oggi ha sempre il sorriso, è autoironico e fa le battute su stesso”, sottolinea Canovi.
Adejo sposò Celeste, la portò in vacanza a Kaduna, in Nigeria. Da piccolo rimase orfano, ora nella sua casa africana vivono in 6, in uno spazio ristretto. “Sono tutti grandi lavoratori”, spiegano Barreca e Canovi, che in tempi diversi gli hanno fatto da mentore.
Celeste intanto è cresciuta, è diventata mamma, Adejo è stato raggiunto dal fratello minore, ex calciatore, dopo tentativi effettuati nel Padovano.
Daniel è un tipo riservato. “Il prototipo del calciatore ideale – aggiunge Canovi -, tutto famiglia, allenamento e partita. Si prodiga particolarmente con i nuovi arrivati, è il miglior collante possibile per lo spogliatoio e in confidenza con tutti. Si interessa molto di politica, si aggiorna e confronta. E’ talmente intelligente che potrebbe fare l’allenatore, a fine carriera. A Reggio non aveva grilli per la testa e girava su una 500”.
Eppure è stato cercato da molti club. “Lo Sporting Braga lo voleva in Portogallo, quando passò il preliminare di Champions league a scapito dell’Udinese, ma solo in prestito. L’avevano richiesto anche Catania e Cagliari, in serie A, eppure era rimasto sullo stretto”.
Poi passò in Grecia, quindi al Vicenza, poi la Salernitana e il ritorno in terra ellenica.
Vanni Zagnoli
Per tre storie con il lieto fine (e non sono le uniche), tante non l’hanno perchè giovani vengono portati dall’Africa all’Europa con il miraggio di diventare campioni e poi magari finiscono presto a fare i lavori più umili, oppure vengono sfruttati da scafisti e successivamente da intermediari.
C’è poi la storia dei i fratelli Traore. Hamed, 20 anni, centrocampista del Sassuolo, e Amad Diallo, 17 anni, attaccante dell’Atalanta. Un’indagine della procura di Parma ha portato all’accusa di falso e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per cinque ivoriani, fra cui anche il “padre in prestito” dei due giovani calciatori, per il momento ascoltati come persone informate sui fatti. Saranno probabilmente squalificati per alcuni mesi.
Da “Il Messaggero di Sant’Antonio”