Il Sassuolo dall’inizio, il terzo portiere Alberto Pomini: il racconto d’autore su L’Ultimo Uomo, di Diego Guido

(v.zagn.) L’Ultimo Uomo è sito d’autore, tipo Rivista Undici, suggestivo, con articoli e interviste molto lunghi. Questo racconto neroverde è del 28 luglio, ambientato a Lucerna, per il debutto in Europa. Riguarda uno dei due superstiti delle avventure in serie C2.

http://www.ultimouomo.com/tag/alberto-pomini/

Alberto Pomini, portiere Sassuolo.
Alberto Pomini, portiere Sassuolo.

Sassuolo dall’inizio

di Diego Guido

Abbiamo incontrato Alberto Pomini, portiere del Sassuolo dalla Serie C all’Europa League.

Il Pilatus è la cima più alta del massiccio che domina Lucerna, nord della Svizzera. Per raggiungere i 2.132 metri della vetta si deve salire a bordo di un piccolo treno rosso. Si chiama Pilatusbahn, ferrovia del Pilatus. A renderlo celebre non è tanto la sua meta, quanto piuttosto la sua spavalderia. Le salite che affronta sono muri. In alcuni tratti le pendenze toccano il 48%. Nessun altro treno al mondo osa tanto. Pensare a chi l’ha progettato fa sorgere il classico dubbio: sarà stata più follia o più coraggio?

 

Troppo facile vederci l’iconografia degli ultimi 15 anni del Sassuolo: un’ascesa ripida e incosciente, che tuttavia non è riuscita a stupire più di tanto. Che l’impresa del Leicester abbia ridimensionato tutte le altre imprese compiute nel 2015-2016? O forse non siamo più capaci di usare lo stupore. Come con l’alieno che piomba in mezzo ad un incrocio cittadino: il primo giorno tutti a fotografarlo e guardarlo, il secondo già a dirgli di spostarsi che intralcia il traffico. Adesso lo straordinario viaggio del Sassuolo è arrivato al debutto europeo proprio lì, all’ombra del Pilatus e del suo treno rosso.

 

Al grande pubblico è giunta solo l’ultima parte del racconto: del Sassuolo ci siamo accorti quando sono arrivati in serie A, i più attenti di noi quando stupivano in serie B. Ma la loro storia è rappresentata ancora dai due reduci dell’ultima C2: Francesco Magnanelli, il capitano con la fascia, e Alberto Pomini, il capitano senza. Centrocampista il primo, portiere il secondo.

 

Pomini è arrivato al Sassuolo l’estate del 2004, un anno prima di Magnanelli. Veniva da una stagione a San Marino e una a Bellaria. È la memoria storica neroverde e una colonna dello spogliatoio, così, prima che partisse per il ritiro di Malles, l’ho invitato a cena per chiedergli di spiegarmi come diavolo ci siano riusciti.

Alberto tu hai capito come hai fatto in sole 11 stagioni a passare dalla C2 all’Europa?

Il grosso del merito è della società. Quando si mettono in testa una cosa prima o poi la ottengono. Programmano, investono. Si punta dritti all’obiettivo.

 

Quindi quando sei arrivato, nel 2004, hai capito che eri salito sul treno giusto?

Per niente. Si era capito che il presidente Squinzi aveva già le idee molto chiare ma il grosso del lavoro doveva ancora iniziare.

 

Iniziare quanto?

Abbastanza. Per dire, il medico sociale era uno dei medici di base di Sassuolo. Ricordo il primo ritiro, nel 2004. Eravamo a Polinago, un paesino piccolissimo, verso il bolognese. Alloggiavamo in una struttura che faceva anche da centro per gli anziani. A dirlo oggi fa sorridere. Eravamo in cinque per camera e per allenarci andavamo a piedi al campetto del paese che aveva una metà campo in salita.

 

Non un grande impatto, intendi?

Bellissimo invece. La squadra era molto forte e le ambizioni della società le potevi già respirare nell’ambiente. Quando siamo tornati a Sassuolo, a fine ritiro, ci hanno portati in sede alla Mapei (la società di Squinzi, proprietario del Sassuolo ndr). Siamo entrati nella sala conferenze nel corso di un workshop aziendale. Squinzi stava parlando davanti ad una platea di manager di altre società. Quando siamo entrati, li ha fatti voltare verso di noi: “Questa è la mia squadra di calcio. Guardatela bene perché tra 10 anni andrà a S.Siro a vincere contro l’Inter”. Ci siamo guardati tra di noi per capire se l’avesse detto davvero.
Domenico Berardi, attaccante del Sassuolo.
Domenico Berardi, attaccante del Sassuolo.

Se sei in C2 e in 10 anni vuoi arrivare a battere l’Inter, la prima cosa che viene in mente è che non puoi permetterti troppe battute d’arresto.

In queste mie 12 stagioni siamo andati 7 volte ai playoff, abbiamo ottenuto 3 promozioni e ci siamo sudati due durissime salvezze, una in B e una al primo anno di A. No, non ci è mai piaciuto prendercela comoda.

 

Risultati arrivati anche grazie ai nomi importanti in panchina, no?

Nomi importanti? Io parlerei pure di assoluti fuoriclasse per le categorie in cui eravamo. Due su tutti, Pioli e Allegri. Due allenatori mostruosamente bravi. Ci hanno dato tanto mentre erano qui, ma forse è stato ancora maggiore il contributo che hanno lasciato una volta andati via. Hanno innescato qualcosa che è rimasto nella mentalità e nel modo di lavorare di tutto l’ambiente. Non ci hanno solo allenati, ci hanno costruiti.

 

Dovessi dire una cosa in particolare delle tante che hanno lasciato?

Di Allegri direi la meticolosità nel preparare le partite. Quasi fantascienza per la C1. Non aveva avuto ancora grandi esperienze, ma tutti avevamo la percezione di essere di fronte ad un tecnico d’altra categoria. Ha fatto con noi un solo anno e siamo saliti in B. Di Pioli ricordo l’estrema eleganza. Non perdeva occasione per far sentire tutti al centro del progetto. Mantenere tutta la rosa sul pezzo. Una cosa che non sempre accade. Anche su quelle eredità è nato il ciclo delle imprese di Di Francesco, che insomma ci ha portato in Europa.

 

Non c’è mai stato un momento in cui avete detto “forse a S.Siro non ci arriviamo”?

In realtà non c’è mai stato un momento in cui abbiamo detto “noi a S.Siro ci arriviamo”. Nel senso che tra di noi, in squadra, ci siamo sempre posti un obiettivo alla volta. Il proclama del presidente di aveva fatto piacere ma non era quello il nostro orizzonte. Lui era giusto pensasse 10 anni avanti, noi era giusto che pensassimo di domenica in domenica.

 

In tutte le storie a lieto fine c’è il momento della svolta. Quello in cui l’incantesimo potrebbe rompersi ma non lo fa.

Il nostro è stato alla vigilia della finale playoff di C2, nel 2006. Era la mia seconda stagione qui. L’anno prima avevamo perso le semifinali. Ci hanno portato a cena in una bellissima villa a Fiorano, ospiti di uno dei soci della proprietà. Ci hanno detto chiaramente, o vincete e saliamo in C1 oppure Squinzi potrebbe non garantire più tutto il suo appoggio. Abbiamo battuto la Sansovino e oggi siamo qui. Fossero saliti loro in C1 al posto nostro ora il Sassuolo potrebbe essere ancora in Lega Pro. E io chissà dove.

 

Quindi anche le due salvezze in B e in A potevano essere la fine.

No, erano momenti molto diversi. La società è sempre stata ambiziosa ma l’aveva messo in conto che salendo sarebbero potuti arrivare anche i momenti difficili. Nel bilancio finale ci possono stare. Ma c’è sempre stata la lucidità per comprendere gli errori in tempo e sistemare le cose. In B chiamando Gregucci per il finale di stagione; in A facendo tornare Di Francesco dopo il rischio del baratro. Credo che Malesani per primo si fosse reso conto di non essere più l’allenatore che era stato.

 

A proposito di allenatori, è con Gregucci che sei diventato importante?

Mi ero sempre sentito importante, ma lui mi ha dato la possibilità di dimostrarlo anche ad alto livello. Alla mia terza stagione di B. Meglio tardi che mai.

 

Nelle prime due stagioni cos’era successo?

Nulla di particolare. Rimanevo fuori per scelta tecnica, giocava Bressan. Ma è sempre stato così. Siamo arrivati in C1 e mi dicevano “bravo in C2, ma in C1?”. Siamo stati promossi in B e Mandorlini volle Bressan al mio posto. Era tutto fatto per la mia cessione, poi però è andato via Benassi e sono rimasto.

 

Poca fiducia, insomma.

Se parti da Bellaria devi mettere in conto che per arrivare in A dovrai sempre dimostrare di più di chi esce magari da una primavera nobile e scende di categoria. Sono sempre partito da zero, ad ogni ritiro. Ma mi piace. Aggiunge un bel po’ di valore al viaggio che ho fatto.

 

Poi finalmente Gregucci, dicevamo.

Un girone di ritorno spettacolare. Una bella fetta di salvezza sono riuscito ad afferrarla con i miei guantoni. Due anni e mezzo a guardare dalla panchina e poi, quando tutto sta per crollare, risultare decisivo. Non solo mi sono sentito uno da B, ma per la prima volta ho capito che potevo davvero arrivare.

 

Quindi la certezza l’hai avuta solo a 28 anni?

Se esci dalla primavera della Roma, o della Juve, o di chi vuoi tu, e inizi ad andare in prestito tra B e Lega Pro puoi pensare che avrai una carriera nel calcio. Se invece come me debutti tra i professionisti solo a 21 anni, a S.Marino, e l’anno dopo, a Bellaria, a 22 anni, sei costretto a chiedere ai tuoi i soldi per l’affitto perché la società è in ritardo con gli stipendi, non ne sei più così certo.

 

Non si capisce se puoi crescere e aspirare ad una categoria più su?

Sai quanta gente veramente forte ho visto rimanere senza contratto a 26 o 27 anni in quelle categorie? Io non mi sono mai illuso. La fame mi ha sempre tenuto aggrappato alle opportunità che mi hanno dato. Per alzare sempre l’asticella. Sono stato bravo e fortunato. Fosse finita, sarebbe stata dura. Sono nel calcio da quando ero un ragazzino e mi sono ritrovato uomo senza saper fare nient’altro che quello. Obiettivamente, io non so fare altro che fare il portiere.

 

Con queste premesse arrivare in A a 32 anni dev’essere stato come il traguardo di un tappone di montagna.

Ci sono arrivato con la fronte bella sudata, questo sì. Ma non cambierei la mia storia con nessun’altra. Sapere di esserci arrivato solo con le mie forze, non ha prezzo. Me la sono presa passo dopo passo, tornando a vedere la luce anche dentro i momenti bui.
Alberto Pomini, Sassuolo.
Alberto Pomini, Sassuolo.

Ti sei mai chiesto perché a qualche bambino, come sei stato te, all’emozione del fare gol preferisca quella di impedirlo?

Non so se per me è stato davvero così. In realtà non ricordo di aver mai detto “si, voglio fare il portiere”. Mi piaceva come mi piaceva giocare fuori. Poi al primo allenamento nei pulcini del Cadidavid, la squadra del mio paese, quando l’allenatore ha chiesto chi sapeva giocare in porta, ci ha pensato il mio amico Aldo: “mister ci va Alberto. Alberto è bravo in porta”. E non sono mai più uscito.

 

A me sembra un ruolo così differente che bisogna averlo dentro.

Differente certo, ma non perché usa le mani in uno sport in cui la palla la si tocca solo con i piedi. La differenza vera sta nel pallone. Il portiere ne usa uno che pesa esattamente il doppio, carica com’è della responsabilità di ogni possibile errore. Della certezza che un tuo sbaglio costerà un gol anche a tutti i tuoi compagni.

 

E l’incoscienza e la follia di cui si parla sempre riguardo ai portieri?

Quella è la conseguenza del differente peso del pallone. La follia del portiere non è quella che serve per buttarsi con la faccia tra i tacchetti di un avversario in corsa. La follia è quella che serve per non pensare a tutti i chili di ogni pallone che tocchi. L’incoscienza di lasciarsi alle spalle l’errore, di non pensare a quanto è costato a tutta la squadra e tornare a parare.

 

Nel senso che la mente viene prima della tecnica.

La possiamo anche dire così: un portiere come Marchetti ha dimostrato di essere un buonissimo portiere non tanto per l’alto rendimento a Cagliari, quanto invece per gli standard raggiunti alla Lazio. Perché i palloni da parare sono più pesanti a Roma che non in Sardegna. Altra faccia della stessa medaglia è un giovane interessante come Gollini. Dovrà essere bravo a mantenere le aspettative quando non giocherà più in una squadra con poche possibilità di salvarsi come era il Verona della scorsa stagione.

 

Restando sul discorso tecnico, cosa pensi del guardiolismo di questi anni? Sembra che la metamorfosi kafkiana del portiere sia ormai definitiva e adesso è un quasi-libero.

Non so se è definitiva. Mi aspetto altre evoluzioni nei prossimi anni. Sarà davvero definitiva quando anche nelle serie minori diventerà normale chiedere al portiere di giocare molto la palla. Noi abbiamo Di Francesco e Lorieri che sono due martelli. Ci lavoriamo moltissimo. Si mettono a 50 metri e urlano che la vogliono sul petto. L’esempio di come siano cambiati i tempi è Donnarumma. Su di lui è lampante il lavoro palla a terra che ora viene fatto fin da piccoli. Poi ok, lui è semplicemente un fenomeno.

Ti senti uno dei leader della squadra? Di avere una certa influenza dentro lo spogliatoio?

Sento di essere preso come riferimento dai più giovani, questo sì. È il ruolo di noi più vecchi e di noi che siamo lì da sempre. Uno come Domenico (Berardi ndr), per esempio, penso che abbia potuto far vedere quanto è bravo perché vive tutta la settimana in un ambiente molto riparato. È circondato di punti di riferimento. Compagni e staff non lo metterebbero mai in discussione. L’oasi Sassuolo è così.

 

Farà piacere anche ad un allenatore avere senatori che conoscono l’ambiente da tanto tempo.

Di Francesco non me lo nasconde. Lui qui mi sta allungando la carriera. A volte parliamo anche del futuro. Mi dice che gli piacerebbe avermi nel suo staff quando smetterò. Vedremo. Se non altro vuol dire che sto dando molto anche senza giocare. E ti assicuro che ce ne sono di cose che un giocatore può dare alla sua squadra anche senza mai scendere in campo.

 

In piazza Risorgimento, alla base di un condominio basso e largo, c’è il bar Luana. Di fronte al bar, lo stadio Enzo Ricci in cui il Sassuolo (che non ci gioca più dall’ultimo anno di C1, quello della promozione con Allegri) continua ad allenarsi. È vero che ci vai ancora in bicicletta e saluti gli anziani che giocano a carte al bar Luana?

E quando mi capita di andarci in auto me lo fanno pesare. Aspettano che scenda, che prenda la borsa e poi dal bar iniziano “Ah ma allora adesso fai quello importante”, “Basta bicicletta, basta. È un vip ormai”. Prenderci in giro è il nostro rito. Impagabile. La bellezza di giocare in un posto come Sassuolo: la vita della provincia dentro il calcio di altissimo livello.

 

Sei quasi più sassolese che veronese ormai. Hai anche l’accento.

Me lo dicono sempre quando torno a casa. Ho l’accento e anche le chiavi della città.

 

Addirittura?

Ce le hanno consegnate alla presentazione della squadra la scorsa stagione. Le hanno date a me e a Magnanelli, i due veterani. Ammetto che quando me l’hanno detto non avevo colto il valore della cerimonia. Poi, con la chiave in mano e tutta la città che applaudiva, mi sono reso conto. Sapevo di dovere molto a Sassuolo; non avevo realizzato che anche Sassuolo sentisse di dovermi qualcosa.

 

Dev’essere bella una tale simbiosi tra luogo e squadra.

Una cosa che può accadere solo in una cittadina piccola come questa. A dire il vero tanti miei compagni vivono a Modena. Una scelta che fa soprattutto chi viene a giocare qui arrivando da una grande città. Temono di finire sperduti nel nulla. Li posso capire. Ma se hai la mia storia e due figlie – quasi tre – non andresti in nessun altro posto. Senza quelli del bar Luana, ma siamo matti?
Alberto Pomini testimonial AVIS.
Alberto Pomini testimonial AVIS.

Ti fermerai lì quando smetterai?

Non ci ho ancora pensato. Vedremo. So solo che appena smetto inizio a viaggiare. Negli ultimi 20 anni ho sempre e solo visto il mondo del calcio. So troppo poco di quel che c’è fuori. Il mio lusso sarà potermi prendere 6 mesi, 1 anno, e dire “ok, adesso scelgo cosa andare a vedere”. E magari andare finalmente a Formentera.

 

Non sei mai andato a Formentera?

Potrei andarci solo a giugno e a giugno troverei tantissimi colleghi. Tu andresti in vacanza dove sai che troveresti i tuoi colleghi? E poi mi piace troppo farmi i fatti miei per rischiare di finire in situazioni da autografi e foto e sguardi. Quando smetterò ci andrò. Ma a settembre.

 

Quando smetterai sarà anche il momento dei bilanci. Qualche rimpianto?

La maturità per me è quella cosa che ti fa dare il giusto peso a tutto. Me la sono presa per anni quando mi dicevano che il mio più grande difetto erano le uscite. Oggi ammetto che avevano ragione. Oggi accetto serenamente ogni scelta e riconosco che Consigli e Pegolo sono oggettivamente due portieri migliori di me.

 

Sento che sta arrivando un però.

Però un grande rimpianto ce l’ho. Legato al nostro primo campionato di A. Iniziamo perdendo male a Torino e in casa con il Livorno. Rosati fa qualche errore e Di Francesco ci dice che vuol provare me. La mia prima partita in A la gioco alla terza giornata, destino vuole nella mia Verona. Mi sento abbastanza a mio agio. Purtroppo però perdiamo ancora. Quella dopo siamo in casa con l’Inter.

 

Quel Sassuolo-Inter?

0-7 e non gioco più. Ho riguardato molte volte i gol e sono convinto ancora oggi che non avrei potuto fare molto di più per evitarli. Ma di fatto quella partita ha bruciato le carte che avevo da giocarmi a 32 anni, appena arrivato al livello più alto della carriera. Ma oggi l’ho superata. Quella partita non ha reso meno bella la mia storia qui.
https://www.youtube.com/watch?v=FvNU6p8oGVg

La finale di Coppa Italia, col Milan sconfitto dalla Juve, vi ha aperto le porte dell’Europa. Quando avete cominciato a crederci?

Abbiamo iniziato a pensarci solo alla fine, quando il Milan ha iniziato a perdere punti e la Lazio non riusciva ad avvicinarsi. L’Europa non ce l’aspettavamo. Non era un obiettivo realistico per noi. Dobbiamo essere onesti e ammettere che ci siamo arrivati perché sono mancate proprio Milan e Lazio. Il nostro merito è stato la prontezza. Quando abbiamo trovato il 6° posto senza altri padroni, l’abbiamo preso.

 

Oltre alla prontezza, servono anche i punti.

Abbiamo fatto un bellissimo campionato, questo sì.

 

Forse nemmeno così al di là delle aspettative. Voglio dire che il vostro livello tecnico, di gioco e di risultati si è notevolmente alzato.

Siamo migliorati tanto, è vero. Giocare contro quelli bravi ti migliora e al terzo anno di A i risultati si sono cominciati a vedere. E poi è arrivata gente davvero molto forte. Quando ti alleni con uno più bravo di te, senza quasi accorgertene alzi immediatamente tutti i tuoi standard.

 

Qualche nome di quelli che hanno aiutato ad alzare l’asticella ti viene in mente?

Nomi è sempre difficile farne. Potrei dirti Peluso, perché quando arrivi dalla Juve di questi anni si vede. Oppure Acerbi. Senza fare discorsi troppo sentimentali, quando un tuo compagno, un collega con cui condividi tempo, sudore, vittorie, sconfitte, torna in gruppo dopo aver affrontato e superato una malattia e lo fa come lo ha fatto lui, dà una lezione a tutti. Uno come Francesco oggi ti può spiegare tante cose, anche senza parlare. Solo guardandolo allenarsi. Nelle dinamiche di un gruppo la componente umana è tutto. Sarebbe meglio non gli fosse mai successo nulla, ma è un dato di fatto che noi, in spogliatoio, abbiamo persone così.

 

E la stella Berardi?

Trovarlo è stato come scendere in cantina e scoprire di avere un Picasso che non ricordavi di avere.

 

In che senso?

Era il penultimo anno di B, con Pea. Spesso durante la settimana ci aggregavano qualche Primavera. Le partitelle erano impietose. Diciamo che si vedeva che non erano ancora pronti, ecco. Il mister glielo faceva capire senza molti giri di parole. Poi un giorno ci mandano questo ragazzino di 16 anni e rimaniamo a bocca aperta. Dicevano fosse un po’ timido. A noi sembrava solo forte, molto forte.

 

Il fatto che non siate più una sorpresa lo dimostra anche il caso Vrsaljko: siete ad un solo grado di separazione dai vice-campioni d’Europa.

Detta così suona bene, non ci avevo pensato. Ma più che il Sassuolo era Sime ad essere già vicino a quei livelli. Il più forte con cui abbia mai giocato. Tecnicamente e atleticamente è un mostro. Non mi stupisce che sia andato all’Atletico. Giusto così, lui deve stare in squadre di quel tipo.

 

Negli ultimi anni la programmazione Sassuolo ha portato da voi anche gente come Zaza e Pavoletti, che quest’estate sono al centro di molti discorsi.

Ricordo perfettamente il primo allenamento di Simone e ricordo di aver detto “questo arriverà”. Leonardo invece è un altro tipo di giocatore. Forse meno dotato tecnicamente ma un fenomeno mentalmente. Ogni allenamento a mille, ogni pallone come fosse quello della vita. Zaza è più personaggio. Non fraintendermi, bravissimo professionista. Solo amava giocare per il pubblico, sentirlo esultare per un suo gol. Ha bisogno di quelle sensazioni lì.

 

Adesso con l’Europa cosa cambia?

Non cambia nulla. Continuiamo a lavorare come abbiamo sempre fatto. Sicuramente non la faremo tanto per farla. Non è nella logica della società. E poi ci ricordiamo della lezione della Sampdoria dell’anno scorso.

 

Però ora dovrete giocare per andare sempre un turno avanti, un po’ diverso dal giocare per salvarsi a cui siete più abituati, no?

Può darsi. Giocare per salvarsi è molto più facile che giocare per vincere. Proveremo a fare un altro passo nella nostra crescita. Abbiamo il vantaggio di non avere troppe pressioni e lo sfrutteremo per lavorare sul campo e sulla testa. Vogliamo fare le cose bene.

 

Allora in bocca al lupo.

Crepi. Prendi il caffè?

 

A cura di Giangabriele Perre

Related Posts

Leave a reply