Sportsenators.it. Suarez, l’addio al campione dell’Inter. Fantasioso anche da polemista televisivo

(repubblica.it)

Vanni Zagnoli

“Mi saluti il direttore, Maurizio Belpietro”. Che all’epoca della mia telefonata dirigeva Libero.

Luisito Suarez se n’è andato domenica, era molto selettivo nei contatti. Per le grandi testate ci poteva essere, diversamente no. Luis era un grande personaggio, la bandiera dell’Inter ma anche della Spagna, e poi un bel polemista sportivo, su Mediaset, in particolare. Andava a Controcampo, tra fine e inizio millennio, non era diplomatico.

Martedì ci sono stati i funerali, dalla Spagna è arrivato Emilio Butragueno, la leggenda del Real Madrid, Suarez era stato il suo ct nella nazionale maggiore, a Italia ’90, il punto più alto di una carriera in panchina molto meno lussureggiante rispetto al campo. E poi il ricordo in chiesa di Massimo Moratti, che l’ebbe nei quadri tecnici della sua Inter, mentre il padre Angelo arrivò a vincere tutto anche grazie alle sue geometrie. “Luisito per sempre leggenda”, lo striscione davanti al sagrato della chiesa. C’è la direzione tecnica dell’Inter, Marotta e Ausilio, e c’è Gianfranco Bedin, veneziano, di San Donà di Piave, che ribadisce: “E’ stato la storia dell’Inter”.

Il 27 maggio del 1964 l’Inter ottenne il suo primo trofeo internazionale, la coppa dei Campioni, 3-1 al Real Madrid. Giocava con il 4-3-3, all’epoca peraltro c’erano i numeri dall’1 all’11.

Dunque Sarti; Burgnich, Facchetti; Picchi, Guarneri; Tagnin; Suarez, Corso; Mazzola, Jair, Milani. Allenatore: Helenio Herrera

Di quella Inter di 49 anni fa sopravvivono solo Aristide Guarneri, che abita a Cremona, e Sandro Mazzola. Che racconta: “Scappavamo dal ritiro e Luisito con due sberle ci riportava in stanza. Era un maestro”.

Scegliamo di ricordarlo tramite Roberto Beccantini, classe 1950, giornalista bolognese mito, editorialista de il Corriere dello Sport, dopo una vita fra Gazzetta dello Sport e La Stampa.

Luis Suarez Miramontes – scrive – si è spento all’ospedale Niguarda di Milano, dove viveva, consumato da un tumore. Aveva 88 anni, compiuti il 2 maggio. Uno dei più grandi del Novecento. Alfredo Di Stefano lo definì l’Architetto. L’uno, blanco del Real; l’altro, azulgrana del Barça. Eppure amici per la pelle; e per la palla. La Galizia, terra all’estremo nord-ovest della Spagna, ci ha dato due caudilli. Un fuoriclasse, lui; e Francisco Franco, non proprio.

Era gracile, molto gracile… E così il papà, macellaio, lo rimpinzava di bistecche. Giovanili nel Deportivo, non ancora Superdepor, e poi il Barcellona, dal 1954 al 1961. Fra i compagni, campionissimi del calibro di Ladislao Kubala, Sandor Kocsis, Evaristo. E come allenatore, il più influente, un certo Helenio Herrera. Insieme, vinsero 2 Lighe, 2 Coppe di Spagna e 1 Coppa delle Fiere. Nel 1961, per la cronaca e per la storia, Suarez disputò la finale di Coppa dei Campioni, a Berna: 3-2 per il Benfica di Bela Guttmann e non ancora di Eusebio. La prima al di fuori del quinquennio madridista. Un ingorgo di pali, alcuni sicuri e altri misteriosi; sui due di Kubala si può scommettere.

Helenio aveva già firmato per l’Inter. Lo segnalò, lo volle a tutti i costi. Angelo Moratti e Italo Allodi glielo portarono al «modico» prezzo di 250 milioni di lire (dell’epoca), cifra che permise ai catalani di arredare e ampliare il Camp Nou. Cominciava un nuovo romanzo. L’era della Grande Inter: 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Diventò Luisito. Numero dieci, atipico rispetto agli atipici del ruolo. Nel senso che sapeva fare tutto, anche i gol: un po’ come Michel Platini, citato in un’intervista a Gianni Mura.

Nel Barça giocava avanzato e, dunque, segnava di più; nell’Inter arretrò in regia, rampa per gli scatti di Sandro Mazzola e Jair. E, quindi, segnò di meno. Se Armando Picchi era il capo-capitano del fortino, Suarez era il leader dalla metà campo in su. Non più il grissino galiziano, ma un tipo tosto, che leggeva l’azione prima degli avversari. Elegante nel palleggio, di un destro soave, quasi un violino. Specialità della casa, il lancio lungo. Risorsa, non limite. Con Giacinto Facchetti era il cocco del Mago, ai cui caffè preferiva le tisane (ipse dixit).

Il 1960 gli regalò il pallone d’oro, addirittura: unico spagnolo ad aggiudicarselo. L’anno magico resterà, nei secoli, il 1964. Il 27 maggio, al Prater di Vienna, il trionfo contro il Real dell’amico Alfredo. Era al canto del cigno, ma nel sottopassaggio Picchi continuava a dire, terrorizzato: «guarda questo, guarda quello, guarda il Colonnello (Ferenc Puskas)». Gli replicò, piccato: «ehi, muchachos, siamo qui per batterli, mica per chiedergli l’autografo». Morale: 3-1 con doppietta del Baffo. Il 21 giugno, al Bernabeu di Madrid, la corona europea per nazioni: 2-1 all’Unione Sovietica. E più non domandare. Era il classico direttore d’orchestra, tutto bacchetta, orecchio e spartito. Ma se qualcuno faceva il furbo – penso a un malcapitato oplita del Borussia Dortmund – giù botte.

Da giovane, il suo idolo era José Luis Panizo, il 10 dell’Athletic Bilbao. Così innamorato da scimmiottarne la pettinatura: finché almeno ha avuto i capelli. Lasciò l’Inter nel ‘70, inviso all’altro Herrera, Heriberto. Lo convocò Ivanoe Fraizzoli, gli disse che, secondo il paraguagio, lui e Mario Corso non potevano giocare insieme. Luisito sorrise: «meno male che è arrivato adesso, sennò avremmo meno trofei». Poi, serio: «presidente, venda me; ho 35 anni, Mariolino 29».

Finì alla Sampdoria dell’amico Giovanni Lodetti detto basletta e di un giovane Marcello Lippi. Di quell’estate, amara e incasinata, conservò un rimpianto, forse un rimorso. Prima della Samp si era mosso il Cagliari di Manlio Scopigno e Gigi Riva. Al debutto in Coppa dei Campioni, Scopigno lo avrebbe voluto come timoniere. Declinò l’invito: «probabilmente sbagliai».

Da allenatore non è stato altrettanto bravo. Né all’Inter, pilotata in tre rate, né con la Nazionale spagnola. Si tolse però lo sfizio, e che sfizio, di laurearsi un’altra volta campione d’Europa. Con la Under 21, nel 1986. La finale, all’epoca, era doppia. Avversario, l’Italia di Azeglio Vicini, la covata di Roberto Mancini e Gianluca Vialli, non so se ho reso l’idea. Si imposero le «furiette», ai rigori. Per un periodo collaborò con l’Inter, ha avuto due mogli e lascia un figlio che fa il biologo a Madrid. Lavorò per un gruppo finanziario messicano che organizzava eventi, «vero com’è vero che in B

olivia a far firmare il contratto a Ronaldo sono andato io» (fonte Gianni Mura). Helenio, imbattibile nella propaganda, lo presentò così: «Ha la velocità di Bicicli, il palleggio di Corso, la forza di Lindskog, il dribbling di Sivori e il tiro di Altafini» (fonte Fabio Monti). Magari esagerò un filo, ma nessuno si offese. Era il 2005, quando lo invitarono a scegliersi un erede. Fece un nome. Uno solo: Andrea Pirlo.

Fin qui il ricordo di Roberto Beccantini, che da facebook è finito anche susu derbyderbyderby.it. Su Sky, Beppe Bergomi ricorda il suo Suarez. “Ci vedevamo dal benzinaio, era lucido, l’avevo incontrato anche la scorsa settimana. Amava ripercorrere i ricordi, io lo ascoltavo volentieri. Eppure mi aveva messo in panchina, appena subentrato all’Inter”.

Era il 1991-92 e in nerazzurro c’era Corrado Orrico, il teorico del wm, come modulo, apprezzato per anni su Sky. Suarez era di personalità, anche da allenatore, sbagliava anche per stupire. In campo ci si stupiva se sbagliava.

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