Romeo Sacchetti, da profugo a ct della nazionale italiana di basket: “La mia famiglia si chiama Sachet”

 

Romeo Sacchetti (a destra) quando giocava per il Varese (varesenews.it)

Vanni Zagnoli
Il prossimo ct della nazionale di basket ha parecchio di bellunese e pure di rom e una storia che il grande pubblico ignora.
Romeo Sacchetti arrivò da profugo. “La mia famiglia – ci ha raccontato di persona, al termine di una partita con Brindisi – arrivò per la prima volta a Udine, da Termini Imerese, provincia di Palermo, e poi si trasferì in Puglia, al campo di Altamura, dove nacqui”.
Nel 1953. “Giunsero dalla Romania, i bisnonni erano italiani, di Castellavazzo”.
Sono ancora in vita due dei tre fratelli di Meo. “Francesco e Gina, a Novara”.
L’erede di Ettore Messina ha scritto un libro per dire che anche gli uomini normali ce la fanno: a fare cose straordinarie. A vincere nel basket uno scudetto da allenatore in Sardegna (2015), un argento olimpico (1980) e un europeo (1983) da ala piccola.
Ma soprattutto che non c’è un solo modo di stare in campo e che lo sport è di chi lo fa, non di chi lo vuole comandare. E che nello spogliatoio puoi anche portare birra e pecorino: non muore nessuno. Si è raccontato in “Il mio basket è di chi lo gioca”, scritto con Nando Mura, per Add editore.
Nato ad Altamura, Bari, dice la sua carta d’identità, gli chiedeva Emanuela Audisio, grande firma di Repubblica. Qui riportiamo integralmente la sua bellissima intervista del 20 settembre 2016.
“Quello che non dice – risponde Sacchetti -, è che la mia famiglia era in un campo profughi, padiglione 5. Venivano dalla Romania, dove i miei erano emigrati in cerca di lavoro. Il nostro nome vero era Sachet, siamo originari di Belluno, Castellavazzo, frazione di Longarone. Nonno era fuochista in miniera, papà scalpellino. È morto sei mesi dopo la mia nascita, a 45 anni”.
Lei però si ritiene un uomo fortunato?
“Sì. Anche perché non avrei mai immaginato di vincere a Mosca un argento olimpico, marcando Sergei Belov, e di poter togliermi tante soddisfazioni con il gioco che più mi piaceva. Nessuno mi ha regalato niente: sono partito dalla gavetta, in C2, e sono arrivato in cima. Da uomo libero che vuole un gioco libero”.
Se è per questo ha marcato anche Michael Jordan.
“Mi ha schiacciato con la testa all’indietro, come a dire: guardami, non mi acchiappi. Lui, Larry Bird, Drazen Petrovic erano veramente imprendibili. Ma ci metterei dentro anche Larry Wright, il folletto di Roma, tenerlo a bada era dura. Spesso gli ho visto solo la targa”.
Vero che il suo terzo figlio doveva chiamarsi Larry?
“Sì. Ma mia moglie non ha voluto. Avevo già chiamato Brian in onore di Winters, ex guardia dei Lakers. E non è la sola volta che mi ha criticato”.
Sua moglie l’ha anche minacciata: “Te lo porto via”.
“Sì. Ma Olivia, detta Holly, è ancora mia moglie, ci tengo a dirlo. Ha tre lauree e le devo tutto. Disse così per un rimprovero eccessivo che avevo fatto a Brian quando giocava nell’under 13. Secondo lei ero troppo severo”.
E la sua opinione?
“A mio figlio non ho regalato nulla, anzi gli ho tolto qualcosa. Aveva 5 anni quando mi vide urlare di dolore perché mi ero rotto il ginocchio contro Pesaro e mi abbracciò dicendo: “Babbo, lo vincerò io lo scudetto per te”. È andata proprio così”.
Gigi Riva ha detto: Sacchetti è un grande perché in squadra gestisce il giocatore più difficile: il figlio.
“Ora non più. Ma tra me e Brian ha sempre contato di più il basket. E lui è stato di una discrezione assoluta, non ha mai fatto la spia, mai riportato uno spiffero, sai quante ne avrà sentite contro il padre nello spogliatoio. Vincere uno scudetto con un figlio in campo, e il resto della famiglia in tribuna, è il massimo. E vincerlo per la prima volta per la Sardegna è un’altra soddisfazione. Tanto che vicino ad Alghero ho un campo dove faccio l’olio. Anch’io come Riva, sento il fascino e l’attaccamento verso la Sardegna”.
Lei è bravo nel non stressare la squadra e nel dare libertà al talento.
“Il gioco è piacere: sbraitare, appesantire gli altri, con la paura di sbagliare, non serve. Io da giocatore mi sono costruito, avevo una taglia large, ma piedi rapidi. Mi piace il talento, forse perché io non l’avevo, per questo all’ego straordinario concedo qualcosa in più. Quando ho allenato Pozzecco era una continua sfida, e Travis Diener mi ha detto: non sono venuto dall’America per difendere. Ma il giocatore per me fondamentale a Sassari è stato Shane Lawal, per generosità e concretezza”.
Si è fatto un’idea del perché il basket italiano non si risolleva?
“E’ mancato pochissimo per la partecipazione olimpica, ma bisogna capire che certe occasioni non vanno perse, il momento giusto non passa due volte. Io dai giocatori italiani vorrei più rabbia, più fame, più voglia di migliorarsi. Perché nessuno di loro a fine campionato non va a lavorare sui fondamentali e sui difetti, come fanno in America? A me piacciono i professionali, quelli che fanno bene e con cura le cose, più che i professionisti”.
La sua vita è un cerchio.
“Ero ripartito da Brindisi, dalla regione dove sono nato, e da una città di mare che amo e mi ha voluto. Da un basket dove si gioca con un nucleo di fiducia, dove non si destabilizzano i giocatori solo per il gusto di tenere tutti in allarme. Lo disse anche Paul Mc-Cartney a John Lennon quando voleva allargare i Beatles: “Quattro bastano”.

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