Ilmessaggero.it, basket. La morte di Marco Solfrini, fra gli eroi d’argento a Mosca nel 1980 e campione con il ​Banco di Roma, nell’83. Il triplete capitolino, con Larry Wright e Valerio Bianchini, al PalaEur gremito per la bella contro Peterson. Il vate: “Era il doctor J della nostra pallacanestro”. I video dell’ultima intervista

 

(Ilmessaggero.it)

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di Vanni Zagnoli

Un infarto stronca Marco Solfrini, a soli 60 anni. Era a Parma per lavoro, l’avevamo sentito a lungo in video intervista empirica e scherzosa, giusto un mese fa. Voleva essere un omaggio a un grande del nostro basket, dimenticato. Un giocatore di sostanza, ala di talento ma anche fisica, mai più vista in tv o nei palazzetti che contano.
Solfrini era in quintetto nel Banco Roma vincitore dello scudetto nel ’83, la squadra mito della capitale. Bresciano, Solfrini vinse anche la coppa dei Campioni e l’Intercontinale, con la propulsione di Larry Wright e le difese del vate Valerio Bianchini. All’epoca i numeri erano come nel calcio, in proporzione, dal 4 al 15, dunque il barbuto americano come play, con vice Stefano Sbarra, Enrico Gilardi (capitano) come guardia, Fulvio Polesello e il suo uncino, anche da nazionale, il talentuoso lungo Roberto Castellano, emerso nella Stella Azzurra, la seconda squadra romana, e poi l’americano panciuto Clarence Kea, dinoccolato. In rosa c’erano anche il raffinato Kim Hughes, poi primattore a Reggio Calabria, e i giovani Delle Vedove e Valente, Scarnati, Prosperi e Grimaldi. Il presidente era Eliseo Timò, certo il Banco di Roma faceva molto, al punto da riempire il PalaEur per la bella tricolore, con Milano. Era Bianchini contro Dan Peterson, il filosofo vs il pubblicitario. Entrambi piccoli e occhialuti, indomabili a parole, ricercato Valerio, più popolare din don Dan. Fu l’apice del basket italiano e Solfrini era in quintetto di un Banco che strabiliava, amatissimo. Nell’84, la doppietta fui dall’Italia, con gli innesti di Renzo Tombolato e del giovane Sacripanti, con Darrell Lockhart. Arrivò anche la coppa Korac nell’86 e Solfrini si esibiva in coast to coast, ogni tanto, al punto da essere considerato il Doctor J italiano, comprensivo di triplo passo in entrata. Negli ultimi anni era in nazionale Over 50 e Over 55, vicecampione del mondo nel 2017.

A Brescia rimase sino al 1981 e nella sua città conobbe il primo boom del basket, con Bill Laimbeer, poi campione Nba, con i Detroit Pistons, con Ario Costa e lo sponsor Pintinox. La Leonessa recente finalista di coppa Italia toccò l’apice da matricola, con l’ingaggio anche di Marc Iavaroni, altro poi in Nba, fu sesta e portò alla bella Varese, nei playoff. Un lustro che restò nel cuore di Solfrini, assieme al quadriennio nella capitale. «Poi due anni a Udine – ci ricordava -, tre a Fabriano e altrettanti a Siena, sempre fra difesa e penetrazioni, tra giochi di squadra e individuali. Fu Bianchini ad affidarmi spesso l’avversario più insidioso».

Per Solfrini ci fu anche un bel lustro di nazionale, con 68 presenze e 353 punti. «Con l’argento a Mosca 1980, a soli 22 anni, e anche ai giochi del Mediterraneo, a Casablanca». Pagò poi l’esplosione in posto 3 di vari talenti, Morandotti, Tonut e Dell’Agnello, che andavano ad affiancarsi a Bonamico, il suo alter ego alle olimpiadi in Urss. La sua nazionale, sconfitta solo dalla Jugoslavia: Romeo Sacchetti, Brunamonti, Sylvester, Enrico Gilardi, Della Fiori, Bonamico, Meneghin, Villalta, Vecchiato, Marzorati, 15 Generali. Allenatore Sandro Gamba. Eroici.

Come il Banco di Bianchini. Che affida a facebook i ricordi: «Qualsiasi allenatore avrebbe voluto Marco. Il perfetto slasher, lamato Tiramolla, il Julius Erving italiano era anche un giocatore di rara intelligenza che in campo o in panchina vedeva quello che io non riuscivo a vedere. Ma era anche il compagno nel viaggio della vita col quale potevi confidarti e parlare di cose che erano lontanissime dal nostro mestiere di sportivi. Marco era un fiore di rara bellezza spuntato tra le asperità del mondo dello sport che ti chiede solo di lottare sempre». E lui lottava davvero, per sporcare i palloni, per un rimbalzo, per meritare la chance di una schiacciata. Nel 2009 divenne team manager di Brescia, per due stagioni, mentre 3 anni fa il club ritirò il suo numero 13. «Per me Marco era come un fratello – spiega Matteo Bonetti, patron della Germani -, una persona buona e umile che viveva per la pallacanestro. Una leggenda bresciana e nazionale, ua persona educata, capace con il suo esempio di far crescere la società e il nostro sport in provincia». A Solfrini avevamo strappato il quintetto di sempre, dei sogni, fra i compagni: «Come play metto Stanislav Pietkiewicz, americano di Polonia, in alternativa Sbarra. Ovvio Larry Wright è troppo facile. Gilardi, Darren Daye, Al Fleming (scomparso nel 2003), Hughes. Come allenatore dico Massimo Mangano».

Da “Ilmessaggero.it”

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